Il Rat Park e le soluzioni attraenti, semplici e sbagliate
Da qualche anno a questa parte si leggono articoli, sui social e sui giornali online, che associano “la vera causa delle dipendenze” ad una mancanza di stimoli sociali ed alla vita in un ambiente poco gratificante, escludendo o comunque ridimensionando notevolmente gli effetti farmacologici delle sostanze psicoattive sul cervello.
Questi articoli si rifanno ad una famosa serie di esperimenti di fine anni ’70, detti del “Rat Park”, condotti da Bruce K. Alexander e collaboratori presso il dipartimento di psicologia dell’università Simon Fraser di Vancouver, in Canada.
Brevemente, il primo esperimento mostrava che ratti allevati in gruppo, maschi e femmine insieme, in un ambiente stimolante dove trovavano possibilità di muoversi, socializzare, accoppiarsi, esplorare e giocare, erano meno inclini a consumare morfina per os (nell’acqua da bere) in confronto a ratti tenuti isolati in gabbie singole prive di “arredamento”.
Ambedue i gruppi di ratti erano stati già precedentemente abituati al consumo di morfina.
C’è un bel fumetto che mostra molto bene la rappresentazione mediatica degli esperimenti e le conclusioni che spontaneamente si viene indotti a trarre traslando l’esperienza dei ratti agli umani.
Però, in un disturbo bio-psico-sociale come la dipendenza da sostanze, ogni semplificazione, anche se suggestiva (consolatoria) e in buona fede, rischia di rientrare nel campo della celebre massima (attribuita a George Bernard Shaw pur con qualche incertezza):
“Per ogni problema complesso, c’è una soluzione semplice.
Che è sbagliata”.
Difficilmente un professionista nel campo dello studio e della cura delle dipendenze ridurrà la fisiopatologia di queste malattie ad un solo aspetto, che sia biologico, psicologico, o sociale, e difficilmente svuoterà di peso il fattore farmacologico legato alle caratteristiche proprie dell’effetto della sostanza sul sistema nervoso.
A dare una prospettiva più realistica agli esperimenti del Rat Park, è uscito in pre-pubblicazione tre giorni fa sulla rivista Addiction un commentario di Gage e Sumnall, studiosi inglesi nel campo della salute pubblica e delle dipendenze:
Il lavoro completo è protetto da copyright e non si può riportare qui nella sua interezza.
I punti principali riportati dagl Autori, che hanno rivisto in maniera approfondita gli esperimenti Alexander e le successive repliche, sono i seguenti:
- la metodica di misurazione del consumo di morfina o acqua semplice era molto diversa tra ratti isolati e ratti nel Park, e mentre nei primi si considerava in complesso il volume residuo nei biberon delle gabbie, per il Park c’era un sistema di videoregistrazione che contava le gocce che cadevano e venivano effettivamente bevute;
- il massimo consumo di morfina era tra i ratti femmina isolati, ma ne erano sopravvissute solo due, quindi il maggior consumo di eroina nel gruppo isolato è per lo più a carico di due soli animali (si capisce quindi che il dato ha poca affidabilità statistica);
- altre fonti di errore potevano venire dal fatto che i ratti nel Park potevano accoppiarsi e quindi la gravidanza, l’allattamento e la presenza di cuccioli ne modificavano il comportamento, e i biberon da cui gli animali potevano consumare l’acqua o la soluzione di morfina consentivano l’accesso solo ad un animale alla volta e quindi si stabiliva una competizione basata sulla dominanza.
- i successivi due studi dello stesso gruppo. effettuati su animali non previamente abituati alla morfina, e su animali previamente allevati nel Park o isolati, complicano i risultati perché le differenze nel primo si vedono solo ad alcune concentrazioni di morfina, e nel secondo scompaiono in funzione del sesso;
- le conclusioni degli sperimentatori erano incentrate sull’importanza di tenere conto negli esperimenti del sesso degli animali e delle condizioni di stabulazione, e gli sperimentatori non provavano mai a generalizzarle alla dipendenza nell’uomo;
- i successivi tentativi da parte di altri gruppi di ricerca di replicare gli esperimenti hanno avuto esiti contrastanti: in uno studio successivo i ratti del Park consumavano la stessa quantità di morfina di quelli isolati, e avendo a disposizione cocaina ne consumavano addirittura in più, e più avanti in un altro studio che replicava l’originale ovviando alle differenze di misurazione dei liquidi consumati, i ratti isolati consumavano meno morfina dei ratti del Park.
Tutti questi problemi rilevati approfondendo la materia certamente non intendono escludere l’importanza dei fattori sociali e ambientali nel consumo di sostanze, né nell’animale da esperimento, né tanto più nell’uomo, ma servono a rendersi conto che le semplificazioni “romantiche” non sono un modello affidabile per studiare comportamenti complessi e multifattoriali, o per progettare i relativi sistemi di intervento.
2 pensieri riguardo “Il Rat Park e le soluzioni attraenti, semplici e sbagliate”
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Caro Ernesto, converrai che nonostante limiti evidenti il modello ha il pregio di orientare i professionisti della salute ed i policy makers verso la comprensione del fatto che spesso la differenza fra consumo ed abuso/dipendenza dipende dall’avere o meno una vita degna di questo nome. Ove c’è penuria di servizi, ove i contesti sono degradati e le persone si trovano al crocevia di condizioni bio-psico-sociali insostenibili, è assai più facile che consumi psicoattivi (potenzialmente puntiformi e/o ricreativi) si manifestino invece in forme compulsive (di maldestra autoterapia) che esitano nella dipendenza cronica.
Il modello rat park è pieno di bias (per certi versi anche obsoleto) ma se i servizi di cura e soprattutto gli amministratori & policy makers ne traessero l’idea di implementare interventi di miglioramento dei contesti e delle condizioni biopsicosociali di popolazioni target avremmo fatto passi avanti da gigante nel contrasto alle dipendenze.
Certo che si. Quello sociale è un fattore fondamentale; semplicemente non è l’unico, e il suo peso non è fisso ma varia, caso per caso.