Carl Hart: è possibile un uso responsabile di droga?

Come ormai consueto, riceviamo dal prof. Nencini e molto volentieri pubblichiamo.

Professore di psicologia alla Columbia, Carl Hart studia sperimentalmente gli effetti psicofarmacologici delle sostanze d’abuso nell’uomo, sulla scia della sua mentor Marian Fischman che nel Laboratorio di Bob Schuster all’Università di Chicago era stata tra i pionieri di questo filone d’indagine. Al vasto pubblico Hart è noto per l’autobiografia in cui ha narrato la sua straordinaria ascesa da afroamericano cresciuto in un ghetto della periferia di Miami ad accademico. (Per inciso, chi non avesse ancora letto il libro, ne può trovare l’edizione italiana per i tipi di Neri Pozza: “A Caro Prezzo. La Droga, Le Verità Scientifiche e i Pregiudizi Sociali”).

Hart torna ora in libreria con “Drug use for grown-up. Chasing liberty in the land of fear” (Penguin Press, New York 2021), dove tratta il problema dell’uso della droga da un punto di vista radicalmente antiproibizionista ponendo di nuovo le sue esperienze personali al centro della narrazione. Il libro è infatti un clamoroso coming out dove l’autore rivendica l’uso abituale di un vasto ventaglio di sostanze appartenenti grosso modo a tutte le classi delle sostanze d’abuso illegali, dall’eroina alla cocaina, dalle amfetamine ai loro più attuali derivati, dagli allucinogeni all’ovvia cannabis. Descrivendo, per il colto e l’inclita, gli effetti di tali sostanze così come da egli stesso sperimentati, Hart afferma la liceità dell’uso voluttuario della droga richiamandosi addirittura alla Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti, laddove essa dichiara il diritto inalienabile non solo alla vita e alla libertà, ma anche al perseguimento della felicità: milioni di americani, infatti, “hanno scoperto che certe droghe facilitano la nostra capacità di ottenere questo obiettivo, anche se solo temporaneamente”. Non che le droghe non abbiano effetti avversi, ma essi possono essere evitati usando il “buon senso, la prevenzione, l’istruzione” e pertanto un adulto responsabile è in grado di circoscrivere l’uso di tali sostanze al periodo della giornata dedicato allo svago e al riposo, senza interferire quindi con l’espletamento delle attività quotidiane. Può così affermare di aver ricevuto più danno dall’espletare il ruolo di direttore di dipartimento che dall’assumere droghe (sul fatto che il primo termine di comparazione sia nocivo sono d’accordo per esperienza personale).

Ciò che lascia tuttavia perplessi è che Hart fa, per così dire, di ogni erba un fascio, quasi non sapesse che la possibilità di mantenere il controllo del comportamento d’assunzione varia tra sostanza e sostanza come dimostrato ad abundantiam dagli studi di autosomministrazione. Insomma Hart, pur rovesciandola nelle sue conseguenze, sposa l’asserzione che non esistano droghe leggere da contrappore a quelle pesanti. Comunque sia, l’autore dedica molto spazio a confutare il convincimento che le sostanze d’abuso provocherebbero importanti danni neuropsichici giungendo alla conclusione che “praticamente non vi sono dati nell’uomo che indichino che un uso voluttuario responsabile di droghe causi anormalità cerebrali in individui altrimenti sani”. Forse non è proprio così, ma resta il fatto che, in ossequio ad un esasperato principio di cautela, i dati sperimentali che suggeriscono la possibilità di tali anormalità ricevono grande attenzione anche se raccolti in condizioni irrealistiche rispetto al contesto umano. Personalmente, ricordo il caso dell’MDMA che negli Stati Uniti fu immediatamente inserito in prima tabella quando Science pubblicò il dato, raccolto nel Laboratorio di Lou Seiden all’Università di Chicago, che la sostanza provocava neurotossicità nel ratto a dosi enormemente superiori a quelle utilizzate dai consumatori. La conseguenza di un tale bando fu l’immediata interruzione dell’uso empirico della sostanza per facilitare il dialogo con i pazienti da parte di non pochi psichiatri, un impiego di cui solo a distanza di decenni è stato possibile verificare il fondamento attraverso studi che proprio quel bando impedì di condurre.

In questa prospettiva nessun senso ha allora per Hart la guerra alla droga, il cui fallimento sarebbe per altro testimoniato dall’aumento di ben venti volte del budget dedicato ad essa negli ultimi quarant’anni, senza che se ne sia individuato un obiettivo realisticamente perseguibile se non il potenziamento del sistema repressivo e dei centri di trattamento, questi ultimi definiti sbrigativamente come “parasitic organizations” in accordo con il rifiuto dell’autore persino della locuzione “riduzione del danno” in quanto attributiva di intrinseca negatività al consumo di droga. Del resto quella guerra più che contro la droga, è stata condotta contro le minoranze, come dimostra il dato che il 90% dei condannati in base alla legge contro il crack sono stati afroamericani: vecchia storia, nota Hart, quella della flessibilità cognitiva americana, con dure pene per qualcuno (nero o ispanico) e trattamento compassionevole per qualcun altro (bianco). Sul razzismo che permea la guerra americana alla droga, l’autore argomenta a lungo e in maniera convincente, anche attraverso aneddoti personali dove la sua pelle nera è costante elemento di diffidenza malgrado il suo status di prestigioso accademico.

È degno di nota che l’autore insiste sul fatto che il libero uso delle droghe debba essere limitato agli adulti responsabili, oltre che sani, ma lascia nel vago cosa intenda per uso responsabile. Sfortunatamente, perché questa locuzione è la pelle di pecora sotto cui si cela il lupo di quello che Courtwright nel suo recente “The age of addiction” ha chiamato il “capitalismo limbico”, dispensatore di stimoli gratificanti in grado di provocare dipendenza e maestro nella progettazione del consenso che vede nell’illusione dell’agire autonomo una componente critica della cultura del consumo. Nell’investire nella cannabis, così come stanno facendo, le multinazionali del tabacco non avranno infatti problemi a raccomandarne l’uso responsabile, ma non possiamo certo dimenticare che il loro obiettivo è fare profitti massimizzando il consumo del prodotto.

Il libro è certamente spiazzante per la sincerità e la veemenza con cui è costruito, a volte passando il segno, come negli attacchi personali a colleghi neuroscienziati e a personaggi pubblici, quasi che l’autore volesse dar sfogo a rancori a lungo covati. Ma tanta vis polemica e una certa approssimazione nel valutare i rischi nell’assunzione di droghe non ne fa certo un libro stravagante, iscrivendosi a pieno titolo nella pubblicistica di denuncia della crisi del modello proibizionista. Più di trent’anni fa il politologo americano Ethan Nadelmann pubblicava su Science un lungo articolo intitolato “Drug Prohibition in the United States: Costs, Consequences, and Alternatives” che così si concludeva: “Sappiamo che l’abrogazione delle leggi che proibiscono le droghe eliminerebbe o ridurrebbe grandemente parecchi dei mali che la gente identifica comunemente come parte integrante del ‘problema droga’. Ciononostante questa opzione è ripetutamente e animatamente respinta senza alcun tentativo di valutarla apertamente e obiettivamente. Gli ultimi 20 anni hanno dimostrato che la politica della droga modellata sulla retorica e sull’allarmismo non poteva che condurre al nostro disastro attuale. A meno che non si sia disposti a valutare onestamente tutte le opzioni, incluse le varie strategie di legalizzazione, c’è una buona probabilità che non saremo mai in grado di identificare le migliori soluzioni ai nostri problemi con la droga.” (Science 1989; 245: 939-947). Da allora molta della letteratura antiproibizionista ha continuato a denunciare quanto controproducente fosse l’attuale legislazione; Hart fa un ulteriore passo affermando il diritto all’uso voluttuario delle droghe, teorizzando quanto molti legislatori sono stati già disposti a concedere nel caso della cannabis. Tenuto conto che nella sua veste di neuroscienziato, Carl Hart è, come si dice, “informato dei fatti”, questo suo temerario venire allo scoperto denota come lo “spirito del tempo” stia rapidamente mutando ammettendo nel dibattito opzioni che sino a pochi anni fa erano proprie di frange controculturali assai ristrette. Del resto, cosa era da aspettarsi dopo anni di frustranti sconfitte della “guerra alla droga”? Che poi l’opzione indicata da Hart sia desiderabile è un altro conto e io francamente non lo ritengo desiderabile, restando convinto che esiste una scala di potenza delle sostanze psicotrope nel controllo del comportamento.

Paolo Nencini (paolo.nencini@unitelma.it)

 

Un pensiero riguardo “Carl Hart: è possibile un uso responsabile di droga?

  1. Sestio ha detto:

    A me sembra che il pensiero di Hart sia ineccepibile, nella prospettiva individuale.
    Il problema più in generale però è: chi paga?
    Se il diritto al godimento mediante l’autosomministrazione di qualsiasi tipo di droga va tutelato, chi provvede a mettere a disposizione le sostanze? E a che titolo? In base a quali percorsi economici e amministrativi?
    E a chi spetterebbe farsi carico di eventuali conseguenze e costi sanitari?
    Personalmente non sarei disposto ad accollarmi oneri conseguenti e non penso che la collettività sarebbe molto propensa in tal senso.
    Si potrebbe allora pensare a una privatizzazione estrema del commercio, ricreativo e terapeutico, delle sostanze?
    Come del suicidio e dell’eutanasia, a questo punto.
    Buona giornata

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