Legalizzare la cannabis: il caso neozelandese
Il professor Paolo Nencini ci invia un nuovo interessante contributo che volentieri pubblichiamo. Chi fosse interessato potrà discuterne scrivendo un commento alla fine dell’articolo nell’apposita casella.
LEGALIZZARE LA CANNABIS: IL CASO NEOZELANDESE
Lo stato giuridico della produzione, commercio e consumo di cannabis sta occupando una posizione sempre più importante nell’agenda di organismi internazionali e stati nazionali. La Commissione sugli stupefacenti delle Nazioni Unite ha recentemente accolto la proposta dell’Organizzazione mondiale della sanità di espungere la cannabis dalla classe IV degli stupefacenti, mentre varie forme di legalizzazione sono state introdotte in Uruguay e Canada, così come in undici stati degli USA.
Sulla stessa via si è posta la Nuova Zelanda con una organica proposta di legalizzazione del commercio della cannabis, dei cui pregi e limiti dà conto un articolo appena pubblicato da Addiction (Wilkins C, Rychert M. Assessing New Zealand’s Cannabis Legalization and Control Bill: prospects and challenges. Addiction. 2021 Feb;116(2):222-230). È importante premettere che ancor prima di essere inviata in parlamento, la proposta formulata dal governo è stata sottoposta a referendum popolare consultivo. Nel mentre l’articolo era in attesa di essere pubblicato, il referendum ha dato esito negativo seppure di stretta misura (51% contro 48%). Malgrado ciò, è evidente che la questione resta in agenda e l’articolo è meritevole di attenta lettura.
La proposta di legge neozelandese si pone nella prospettiva generale della protezione della salute, proponendosi di abbattere i rischi connessi all’uso della cannabis e di avviare una progressiva riduzione in tale uso. Ben lungi dall’essere propositi di facciata, essi rispecchiano una tendenza in atto che la storica Virginia Berridge ha definito di convergenza nello stato legale del consumo di sostanze psicotrope: da una parte l’introduzione di iniziative atte a ridurre la libertà di consumo di alcol e tabacco, sulla base di motivazioni sanitarie e di sicurezza pubblica, e dall’altra la ridefinizione delle modalità di controllo di altre sostanze, la cannabis in primis, nel tentativo di sottrarle alla totale illegalità. Come accennato, la proposta di legge è molto articolata e, tra l’altro, prevede i seguenti punti: età superiore ai vent’anni per poter acquistare i prodotti a base di cannabis; acquisto in quantità non superiori a 14 grammi giornalieri esclusivamente in rivendite autorizzate, a cui è vietata la contestuale vendita di alcolici e tabacco; divieto di ogni forma di pubblicità, sponsorizzazione o prodotti omaggio; divieto di consumo pubblico; limite massimo del 15% nella concentrazione in THC; tassazione dei prodotti in funzione della quantità di prodotto e della concentrazione in THC; divieto di importazione.
Al termine di una stringente analisi, l’articolo individua alcuni elementi di debolezza nella proposta. Tra questi, quello più importante da un punto di vista sanitario è sicuramente la concentrazione massima del 15% ritenuta eccessiva, ragionevolmente poiché, come argomentano gli autori, gli studi naturalistici hanno dimostrato che usando alte concentrazioni, i consumatori non sono in grado di mantenere il controllo dell’assunzione con il conseguente più facile sviluppo della dipendenza. Più in generale, l’articolo si mostra scettico circa la possibilità che la normativa di regolazione del commercio della cannabis sia compatibile con l’obiettivo di condurre ad una progressiva riduzione del suo consumo. A tal proposito il punto cruciale consiste nel fatto che il libero mercato ha come obiettivo la massimizzazione dei profitti e se le aziende sono pronte a collaborare con i governi per sottrarre il commercio della cannabis alla criminalità e garantire prodotti di qualità, non lo fanno certo per accompagnare il consumo verso la sua estinzione. Non a caso, infatti, la collaborazione tra stato e aziende in alcuni stati americani ha portato ad una “paralisi regolatoria” con interventi inefficaci di controllo e con una sostanziale mano libera nel commercio. Altrimenti perché le multinazionali del tabacco avrebbero investito ingenti capitali nella cannabis in Canada? È il capitalismo limbico e non puoi farci niente, verrebbe da dire. David Courtwright ha dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio che i gemelli del capitalismo limbico, quello onesto e quello criminale, agiscono per lo stesso fine: il profitto. Non a caso il commercio si orienta verso i consumatori giornalieri di cannabis, sulle orme di quanto avviene con l’alcol e il tabacco, dove l’80% è assunto dal 20% dei consumatori. Le implicazioni tossicologiche sono ben evidenti.
Nessuna speranza, dunque? Tutt’altro, l’importante è non pensare che ci siano soluzioni semplici a problemi complicati e così ragionando gli autori individuano alcune accortezze che potrebbero rendere più efficace la proposta di legge. Un primo accorgimento consiste nello stabile un prezzo minimo impedendo quanto avvenuto in Colorado dove il libero mercato della cannabis ha portato ad una riduzione del 60% del prezzo, facilitando quindi l’accesso alla sostanza. Tenuto conto che i forti consumatori e i giovani sono molto sensibili alle variazioni di prezzo, un prezzo minimo proporzionale alla concentrazione in THC avrebbe il duplice scopo di ridurre la platea dei consumatori e di orientarla comunque verso i prodotti a basso contenuto in principio attivo. Un secondo accorgimento consisterebbe nella introduzione di punti di vendita “non commerciali e non per profitto”, come avvenuto in Uruguay, Vermont, Washington D.C. In Nuova Zelanda questa modalità è stata già adottata per gli alcolici e le slot-machine, con il vantaggio di fornire indubbi vantaggi economici alle comunità. A sostegno di questa proposta si pone l’evidenza che nel caso degli alcolici il passaggio da tale sistema al libero mercato ha comportato un notevole aumento dei consumi.
Si dirà che, stante l’esito negativo del referendum, il dibattito sulla proposta di legge neozelandese assume un carattere accademico di scarso valore pratico. Nella replica ai commenti, gli autori dell’articolo notano tuttavia che le preoccupazioni dell’opinione pubblica erano rivolte più alle implicazioni di sicurezza per la salute che avrebbe comportato la legalizzazione del consumo di cannabis, piuttosto che ad aspetti specifici della proposta di legge. Lo scarso margine nella maggioranza mostra come questa preoccupazione, che non tiene conto del dato di fatto che il consumo di cannabis è già radicato, sia destinata a dar luogo nel tempo ad approcci più pragmatici orientati a governare il fenomeno. In questo senso il caso della Nuova Zelanda costituisce un ulteriore passo nell’esplorazione di modalità di gestione del consumo di cannabis che si avvicinino a quelle dell’alcol e del tabacco: non proibire, ma scoraggiare e informare del danno potenziale.
Paolo Nencini
paolo.nencini@unitelma.it