Il Capitalismo Limbico: affari e dipendenze in un nuovo libro di David Courtwright (recensione di Paolo Nencini)

Riceviamo e volentieri pubblichiamo un’altra recensione del professor Paolo Nencini, nutriente perché ricca elementi di riflessione e spinta all’approfondimento.

IL CAPITALISMO LIMBICO: AFFARI E DIPENDENZE IN UN NUOVO LIBRO DI DAVID COURTWRIGHT

In un breve saggio del 1963 dal titolo “Prefazione alla trasgressione” il filosofo francese Michel Foucault notava che è stato il XX secolo a scoprire “le categorie apparentate del dispendio, dell’eccesso, del limite, della trasgressione: la forma strana e irriducibile di quei gesti senza ritorno che consumano e che logorano.” A distanza di oltre mezzo secolo è proprio all’eccesso che lo storico americano David Courtwright dedica il suo ultimo libro “The age of addiction. How bad habits became big business” (Harvard University Press 2019, 325 pagine), esaminando l’impatto sociale ed economico degli stimoli accomunati dall’essere immediatamente gratificanti: oltre alla droga, il cibo ipercalorico, la pornografia, il gioco d’azzardo, e, assoluta novità, l’uso di internet, tutti capaci di indurre comportamenti appetitivi inclini allo sviluppo dell’eccesso, favoriti come sono dall’abbondanza dell’offerta e dai progressi tecnologici. Basandosi su una bibliografia sterminata (50 pagine fitte di fonti), Courtwright riprende e allarga il discorso iniziato con il fondamentale “Forces of habit. Drugs and the making of the modern world” (2001), dove aveva descritto il processo di globalizzazione del consumo di sostanze psicotrope, dal tabacco al tè, via via a salire alle anfetamine e agli oppiacei. Ritorna così sul ruolo svolto in tale globalizzazione dalla velocizzazione delle comunicazioni che già nel 1914 aveva portato John Maynard Keynes a notare che in Europa la media e alta borghesia potevano godere “at low cost and with the least trouble, conveniences, comforts, and amenities beyond the compass of the richest and most powerful monarchs of other ages.” Descrive inoltre come questa disponibilità si sia sempre più organizzata e diversificata sotto la spinta di ciò che con felicissima locuzione chiama “capitalismo limbico”, motore del ricco mercato della gratificazione cerebrale, “a technologically advanced but socially regressive business system in which global industries, often with the help of complicit governements and criminal organizations, encourage excessive consumption and addiction.” Gli esempi non mancano e non riguardano certo solo le sostanze psicotrope. Così, nel caso del gioco d’azzardo, Courtwright mostra come l’approccio paraturistico della sua gestione industriale abbia portato il numero di visitatori a Las Vegas dagli 800mila del 1941 ai 38,6 milioni del 2005. “In quell’anno il numero dei visitatori fu maggiore della intera popolazione della Polonia o del Canada”, commenta lo storico. Dell’uso compulsivo di internet, ricorda che il 95% delle adolescenti americane sta online giornalmente e il 24% quasi costantemente: è il “time suck” che impedisce di fare ciò che è importante e che si autoperpetua in una forma di vera e propria dipendenza.

Secondo lo storico, il capitalismo limbico genera dipendenza coltivando il vizio, un termine che recupera evidentemente dal modello morale di tossicodipendenza; lo coltiva attraverso una esasperata offerta di occasioni di piacere produttrici dell’eccesso consumistico che, qualunque ne sia l’oggetto, costituisce il vizio foriero di dipendenza: “sotto la pelle d’agnello della autonomia del consumatore si nasconde il lupo della manipolazione a distanza delle emozioni”. Quello limbico è dunque il gemello malvagio del capitalismo e se, secondo lo storico, il gemello buono è spesso socialmente progressivo, il capitalismo limbico è regressivo e qualche volta lo è in maniera feroce, per diventare addirittura tragico quando, sfruttando la natura umana, crea una violazione malvagia delle regole del commercio, regole che lo storico ritiene generalmente benigne. Si può facilmente obiettare che più che ad una coppia di gemelli dalle opposte inclinazioni morali ci si trova innanzi alla compiuta espressione del weberiano spirito capitalistico che impone di procacciare profitti in maniera disciplinata e razionale: si pensi ai commercianti britannici dell’oppio del XIX secolo, generalmente integerrimi nel seguire le regole del commercio, ma del tutto indifferenti alle devastanti conseguenze sociali e sanitarie della loro attività. A tal proposito sono esemplari le biografie di William Jardine e James Matheson nello splendido “Opium and Empire” dello storico americano Richard Grace.

Che fare dunque? A conclusione di due capitoli che mettono a confronto “anti-vice activism” e “pro-vice activism”, Courtwright prende atto che a partire dalla seconda metà del secolo scorso il “pro-vice activism” ha messo in ombra il primo attraverso un uso spregiudicato di pubblicità sofisticata, di campagne promozionali e dei progressi nell’ingegneria edonica, mentre la crescita delle economie informali, industrie multinazionali, reti criminali transnazionali e commerci senza confini andavano creando una iper-autostrada globale del vizio. Anche se gli storici sono nella invidiabile posizione di non doversi sottomettere all’onere delle proposte, Courtwright, preso atto che la guerra alla droga non ha funzionato, si azzarda a proporre una strategia di contenimento come era avvenuto nel caso della guerra fredda: “As a rule … the best approach to potentially addictive products and services is to worry less about their legal status and more about keeping prices high, advertisers at bay, and the young away.” E alla fine del libro, alla domanda sul che fare la risposta è “in politics as in life, we should be against excess.”

In definitiva in questo suo ultimo libro Courtwright si pone l’obiettivo ambizioso di calare la vulnerabilità psicobiologica agli stimoli gratificanti nella realtà sociale, economica e politica di questo ultimo secolo, argomentando in maniera lucida e documentata ciò che in molti percepiscono e cioè di come la crudeltà di un sistema economico globale sfrutti senza remore tale vulnerabilità attraverso l’offerta sempre più diversificata di stimoli gratificanti, scaricando sulla società i costi delle conseguenze, mentre i decisori politici continuano a perseguire, schizofrenicamente, l’illusorio obiettivo della eradicazione del consumo di certe sostanze psicotrope e a sfruttare con la tassazione il consumo di altre sostanze e le molte altre cattive abitudini, il gioco d’azzardo prima di tutto.

Un libro che lascia il segno, senza dubbio.

Paolo Nencini

(paolo.nencini@unitelma.it)

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