Riflessioni su “Diagnosis and Treatment of Opioid Use Disorder in 2020”

Riceviamo dal collega Fulvio Fantozzi, del direttivo di SITD Emilia Romagna, e pubblichiamo questa stimolante riflessione.

 

Come si fa a dirle di no ? Ad un’Autrice di Harvard e soprattutto che si chiama “Wakeman” non possiamo che dire … “YES!” !

Reminiscenze rock-sinfoniche a parte, l’articolo appena comparso in anteprima “online” su JAMA intitolato “Diagnosi e trattamento del Disturbo da uso di Oppioidi nel 2020” vale la pena di leggerlo anche se non c’entra proprio nulla con la Covid 19.

Wakeman SE. Diagnosis and Treatment of Opioid Use Disorder in 2020. JAMA. Published online April 24, 2020. doi:10.1001/jama.2020.4104

E’ un po’ scolastico, ma dal mio punto di vista di “vecchio lupo” da 34 anni continuativamente dedito ( o “addicted”?) al lavoro, a volte difficile, ma sempre entusiasmante, di Medico delle Dipendenze prima nelle trincee di Sert, Caserme e Tribunali e poi in Comunità Terapeutica e nel mio studio privato, dal mio punto di vista, dicevo, l’articolo della Wakeman qualche spunto di riflessione e di critica lo riesce a fornire.

Qui ne propongo cinque al lettore:

  1. per identificare i soggetti a rischio di sviluppare una dipendenza iatrogena da oppioidi, e quindi parliamo di farmaci analgesici maggiori e non di eroina, le “domandine di rito” suggerite dall’Autrice potrebbero “evolvere” ed essere sistemate, oppure soppiantate da qualcosa di più strutturato, ma non troppo, come l’Opioid Risk Tool, agile ed innocuo strumento preventivo menzionato e presentato, lo ricordo, nelle pubblicazioni e nei Convegni, ad alcuni dei quali negli anni passati ebbi l’onore di partecipare come Relatore, della Scuola Addittologica veronese capitanata da Fabio Lugoboni; poi però verrebbe “il bello” ossia convincere colleghi ortopedici, fisiatri, internisti, ecc. che prescrivere codeina e tramadolo e analoghi come il tapentadolo a persone, magari viste episodicamente in Ospedale, senza chiedersi prima se è il caso o non è il caso di farlo e senza minimamente pensare di adoperare strumenti come quello appena citato è semplicemente imprudente;
  2. è rimarcato il concetto secondo cui non sono “ necessari”, al fine di migliorare ritenzione e risultati finali, i trattamenti psicoeducativi e sociali in abbinamento a quelli sostitutivi con metadone o buprenorfina (non sottodosata, però: vedere il Supplemento). Non sarebbero necessari interventi, insomma, psicosociali a favore di pazienti oppioido- ed oppiacei-dipendenti, quelli che una volta qualcuno cercò di chiamare anche in Italia componenti “ancillari” della cura, scatenando anatemi di Psicologi, Assistenti Sociali, Educatori, Sociologi e talora di Medici compiacenti approdati ai Sert “non per vocazione”. Si tratta di un concetto sempre più confermato da ricerca e prassi cliniche, ovunque; esso non dovrebbe però essere sbandierato o “professato” bellicosamente da chi opera nella Rete dei Servizi per le Dipendenze Patologiche, e quindi anche nei Sert, nella maggioranza dei quali viceversa persiste ancora oggi il primato della componente Psicologica ed Educativa pur nel contesto di approcci multidisciplinari. D’accordo. Sbandierato e professato no, ma tenuto presente, almeno dai Medici, Tossicologi o Psichiatri che siano, questo sì !
  3. Il naltrexone per via orale, a differenza di quanto accade in Alcologia dove viene sempre più (e sempre meglio, oserei dire) adoperato come strumento idoneo e collaudato quando si vuol conseguire il bere controllato in soggetti non ancora pronti a smettere del tutto di bere, è tramontato come strumento di cura per le dipendenze da oppioidi/oppiacei nel cui contesto era storicamente “nato”. Ciò soprattutto per una questione di dimostrata scarsa efficacia nel lungo periodo, anche in utenti accuratamente selezionati;
  4. l’articolo pare pubblicizzare subliminalmente, ma neanche poi troppo (vedere la tabella contenuta nel Supplemento) la buprenorfina depot: forse la Wakeman avrebbe potuto farlo … manifestamente ? E comunque in modo meno goffo ?! Senza … “assoli”, insomma, ma nemmeno così … in sordina ?!
  5. Da benedire infine il paragrafetto sulla riduzione del danno da oppioidi ed oppiacei, che ricordo, tanti anni fa quando cominciai ad occuparmi di tossicodipendenze, era bollato come argomento “da eretici” tutte le volte che se ne parlava e scriveva, quasi dappertutto.

Per concludere, apertis verbis l’articolo in esame (al quale , ripeto, non posso dire che “YES” in omaggio al grande Rick Wakeman, che degli YES fu il mitico tastierista) subito dopo avere statuito che i “trattamenti psicosociali possono essere utili, ma non sono richiesti” (nel senso di “necessari”, NdR) avrebbe potuto aggiungere una considerazione: se davvero crediamo sia prioritario e “necessario” ridurre lo stigma (persistente negli USA come in Italia) verso i trattamenti sostitutivi protratti con metadone e buprenorfina per potere così “migliorare diagnosi e cura di pazienti oppioidi ed oppiacei dipendenti”, allora dovremmo considerare come molto remota , anzi eccezionale, l’ipotesi di escludere “d’ufficio” l’integrazione dei trattamenti farmacologici di quel genere con un robusto ( e personalizzato) trattamento psicosociale. Infatti il loro ruolo e la loro beneficialità consiste evidentemente anche nello spiegare a paziente e suo entourage, se presente, il senso ed i “contenuti “ ( e quindi anche i tempi e le modalità di verifica di efficacia “in itinere”!) delle cure mediche farmacologicamente intese, in ultima analisi umanizzandole e di conseguenza destigmatizzandole e rendendole più accettabili dal paziente, ma anche più “sostenibili” dall’ entourage e più in generale dalla società.

In concreto, a mio avviso l’articolo in esame “alza la palla “ (poi che la si voglia schiacciare o meno dipende da un complesso di fattori come motivazione, competenza, capacità di mediare, ma anche assertività e , diciamocelo, “pelo sullo stomaco” del Medico nonché dalla effettiva costrittività organizzativa dello specifico nodo della Rete in cui si è inseriti…) ad una rimedicalizzazione temperata, quindi non “esclusiva”, delle cure multidisciplinari rivolte ai pazienti in parola. E lo fa credo opportunamente e urbanamente.

La palla dovrebbe essere schiacciata anche nei Servizi pubblici.

Nel privato, almeno in un certo genere di “privato” vale a dire quello per intenderci che col “pubblico” è capace ed ha voglia di rapportarsi fruttuosamente e di propria iniziativa, ciò è già successo da tempo ed ancora succede, per fortuna; e, per quel che osservo, con buoni esiti.

FF

Ricordiamo ai Colleghi che ci sono tanti modi, più o meno legali, per leggere gli articoli scientifici online.

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