Eroina ed immigrazione. Parte sesta: storia di un progetto (1).

Bologna 1996

 

BOLOGNA, L’AMSTERDAM ITALIANA

Sono passati ormai più di venti anni quando per la prima volta accostai lo scenario bolognese a quello della città olandese e non certo per la presenza dei coffeshop (che a Bologna non ci sono), ma per il ruolo di questa città nell’immaginario giovanile in generale ed in quello dei consumatori di droghe in particolare. Bologna ha sempre avuto una presenza significativa di popolazione tossicodipendente non residente. Sono questi i motivi per cui mi sovveniva il parallelo con Amsterdam e non altri. I politici locali, assai ingenuamente, hanno sempre ritenuto che ciò fosse dovuto alle caratteristiche di città accogliente ed alla ricca rete di servizi esistente. Mai valutazione fu più approssimativa e così poco rispondente alle reali dinamiche. Quello che pensavano (e oggi pensano ancora) i politici bolognesi è vero solo in una esigua quota di casi. I motivi reali di una così altra concentrazione di eroinomani a Bologna sono in realtà molto diversi e comprendono, oltre che l’immaginario, la posizione geografica, il vivace mercato illegale (libero e regolato solo dalla concorrenza commerciale), la presenza di una casa circondariale, le opportunità economiche offerte dalla città e molto altro. Pensare che il fatto che vi siano molti eroinomani non residenti in città sia dovuto alle politiche sociali, oltre che ingenuo, è inopportunamente autocelebrativo nonchè autoreferenziale. Ad ogni modo, indipendentemente da quali fossero i veri motivi della presenza di eroinomani non residenti a Bologna, vi era un innegabile dato di fatto: gli eroinomani (compresi gli immigrati) non residenti erano esposti ad un rischio enormemente maggiore dei residenti. La maggior parte dei decessi per overdose, infatti, riguardava persone non residenti a Bologna, che però numericamente erano assai meno dei residenti.

Decessi per overdose nel 1998 a Bologna

 

Nel 1998 a Bologna si registrarono 43 decessi per overdose da eroina. Di questi, 22 (51,1%) a carico di italiani non residenti, 2 (4,7%) a carico  di immigrati mentre 19 (44,2%) riguardavano bolognesi, di gran lunga la popolazione prevalente. Una dimostrazione evidente di esposizione ad un rischio maggiore, senza alcun bisogno di effettuare raffinate analisi statistiche. Benchè esposte ad un rischio maggiore, queste persone non avevano accesso ai servizi di cura.

Open drug scene

IL FONDO NAZIONALE PER LA LOTTA ALLA DROGA

La legge 309/90 aveva istituito, fra l’altro, il Fondo Nazionale per la lotta alla droga. Il termine che lo identificava era oggettivamente brutto e a mio parere anche diseducativo, perché restituiva alle persone un’idea forviante del lavoro di prevenzione e di cura. Come insegna don Gallo, la guerra (o la lotta) si fa alle persone e non alle cose, ancor meno ad un concetto astratto come ‘la droga’, con il risultato che la guerra alla droga si trasforma immancabilmente in guerra ai drogati. Per questo, al termine di “lotta (o guerra) alla droga” (che peraltro non esiste, dato che esistono LE droghe) continuo a preferire quello più ragionevole, nonché più preciso, di “contrasto alle conseguenze negative della diffusione del consumo di droghe”. Questa espressione descrive meglio l’oggetto del mio lavoro. La guerra la lascio ai soldati e la lotta ai lottatori. A parte le riserve personali sulla sua denominazione, il fondo si dimostrò oltremodo utile, se non provvidenziale e con il decreto legislativo 28 agosto 1997 n° 281, vennero stabiliti i criteri per l’attribuzione dei finanziamenti.

  1. realizzazione di progetti integrati sul territorio di prevenzione primaria, secondaria e terziaria, compresi quelli volti alla riduzione del danno purchè finalizzati al recupero psico-fisico della persona;
  2. promozione di progetti personalizzati adeguati al reinserimento lavorativo dei tossicodipendenti;
  3. diffusione sul territorio di servizi sociali e sanitari di primo intervento, come le unità di strada, i servizi a bassa soglia ed i servizi di consulenza e di orientamento telefonico;
  4. individuazione di indicatori per la verifica della qualità degli interventi e dei risultati relativi al recupero dei tossicodipendenti;
  5. in particolare, trasferimento dei dati tra assessorati alle politiche sociali, responsabili dei centri di ascolto, responsabili degli istituti scolastici e amministrazioni centrali;
  6. trasferimento e trasmissione dei dati tra i soggetti che operano nel settore della tossicodipendenza a livello regionale;
  7. realizzazione coordinata di programmi e di progetti sulle tossicodipendenze e sull’alcoldipendenza correlata, orientati alla strutturazione di sistemi territoriali di intervento a rete;
  8. educazione alla salute.

Non sono certo, ma mi sembra di ricordare che il fondo venisse finanziato con una piccola quota dei ricavi dello Stato sul monopolio dei tabacchi. Una scelta etica che, almeno in parte, rimediava ai danni della vendita delle sigarette. Non sono però sicurissimo di ciò. Quello di cui invece sono certo è che, malgrado i guadagni dello Stato sul gioco d’azzardo, le competenze sul Gioco d’Azzardo Patologico sono state assegnate ai servizi per le dipendenze ‘a parità di risorse’, senza distrarre neppure la minima parte di quanto incassato dal Tesoro. Neanche una cifra simbolica. Mi assumo qui le responsabilità di ciò che scrivo, ma si tratta di un comportamento deprecabile ed eticamente censurabile, che non trova giustificazione alcuna e marca, ancora una volta, il basso livello di interesse e di investimento della politica nel settore delle dipendenze. Senza poi considerare che con le nuove regole per l’inserimento dei proventi delle attività illegali nel calcolo del PIL, le dipendenze sono diventate una voce di attivo per gli Stati. Fatte salve queste considerazioni, l’opportunità di presentare una domanda di finanziamento per un progetto arrivò al momento giusto: non avrei mai potuto realizzare il mio progetto senza un finanziamento esterno. Un finanziamento importante: duecentocinquanta milioni di lire.

Non so bene quali siano state in seguito le vicissitudini del Fondo, probabilmente devoluto alle Regioni attorno alla fine del secolo scorso o all’inizio di questo. Quello che non posso dimenticare, invece, è che fondi adeguati per progetti finalizzati in seguito non ne abbiamo più visti.

Chasing fra gli immigrati

 

STORIA DI UN PROGETTO

Durante il soggiorno ad Amsterdam avevo imparato molte cose. Ad esempio, che il trattamento farmacologico non dovesse necessariamente essere integrato da altri interventi. All’inizio della storia dei trattamenti con metadone nel nostro Paese, l’unico trattamento ritenuto lecito era quello definito “multimodale integrato”, ovvero un trattamento farmacologico effettuato assieme ad interventi di tipo psico-sociale ed educativo, individualizzati in base alle caratteristiche della persona. Quando possibile, questo trattamento è ovviamente migliore degli altri. C’era un solo grande problema: questa integrazione spesso non era possibile, a causa di impedimenti oggettivi oppure legati alle caratteristiche del soggetto e le persone cui non era possibile, appartenevano spesso alle categorie di tossicodipendenti più esposti a rischio. Nella seconda metà degli anni Novanta avevamo tentato qualche presa in carico di immigrati irregolari eroinomani, a titolo sperimentale, con risultati più che disastrosi. L’applicazione del modello di trattamento multimodale integrato in queste persone non era semplicemente possibile, a causa degli impedimenti burocratici dovuti alla condizione di clandestinità (non è possibile attivare interventi sociali per coloro che per la burocrazia non esistono), ma anche a causa dell’inadeguatezza degli altri interventi alla cultura di questa popolazione. Pertanto il primo punto, importante ed urgente, era svincolare il trattamento farmacologico dalla necessità di un’integrazione.

 

Postulato di Buning

 

Il secondo punto era la bassa soglia d’accesso. La soglia d’accesso ad un servizio di cura può essere definita come l’insieme dei requisiti che lo stesso richiede per essere ammessi al trattamento. Maggiore è il numero dei requisiti che vengono richiesti, maggiore è la soglia d’accesso e viceversa. La soglia d’accesso, a sua volta, può essere di due tipi: burocratica e motivazionale. Nel servizio che immaginavo dovevano essere basse entrambe. In pratica un servizio nel quale, per essere ammessi, non erano necessari né i documenti né la residenza e neanche aver deciso che si volesse ‘smettere’. Doveva essere sufficiente una generica richiesta di aiuto fatta da una persona in evidente stato di difficoltà. Come avevo imparato dagli olandesi, però, bassa soglia d’accesso non voleva dire senza soglia d’accesso.

Contratto terapeutico.

Per essere ammessi al programma era comunque necessario soltanto condividerne le regole di funzionamento, messe a punto con la consapevolezza che, per essere rispettate da tutti, le regole dovessero essere semplici, comprensibili, condivisibili e di buon senso. Decidemmo per tre sole regole, semplici da rispettare: sottoporsi a visita medica almeno due volte all’anno, essere continui nel trattamento ed avere un comportamento corretto. Era il minimo. Il nucleo centrale così era definito: un programma prevalentemente farmacologico, aperto a tutti ed a bassa soglia d’accesso, con regole semplici e che fosse facile rispettare. In ogni caso pensato in ottemperanza al postulato di Buning: “Bassa soglia d’accesso = elevato profilo progettuale = alta qualità della prestazione”.

 

Ambulatorio mobile

 

LA SCELTA DELL’AMBULATORIO MOBILE

Ad una valutazione superficiale, verrebbe da pensare che la scelta di utilizzare un ambulatorio mobile fosse dovuta ad una sorta di infatuazione del Methadone by Bus olandese, con relativa scopiazzatura. Peccato che così non sia stato. La scelta di un ambulatorio mobile riconosceva ragioni precise e fu una scelta vincente:

  1. impedire gli assembramenti di una popolazione multiproblematica: le formate duravano al massimo un’ora, l’utenza veniva frammentata e quindi non si formavano gruppi  che tendevano a trattenersi. In ogni caso, anche se si formavano dei piccoli gruppetti, questi di dissolvevano quando l’ambulatorio ripartiva;
  2. aumentare le probabilità di accesso al servizio: l’utenza che ci accingevamo a prendere in carico era assai mobile per definizione e nella maggior parte dei casi non disponeva di un posto fisso dove dormire. Effettuare più fermate nel territorio cittadino ad orari diversi aumentava le probabilità che queste persone assumessero la terapia;
  3. possibilità di aggiungere o eliminare fermate in base alle necessità: l’ambulatorio mobile consentiva una grande flessibilità e la possibilità di adeguamento delle fermate al mutare della situazione.

L’idea era quella di effettuare il servizio tutti i giorni dell’anno, 365 su 365, incluse le grandi festività e per questo occorrevano due mezzi. L’ultimo accorgimento irrinunciabile, poi, furono i criteri di scelta delle fermate:

  • con parcheggio sempre disponibile;
  • in punti della città con bassa densità di residenti e di attività produttive, ma non isolati;
  • facilmente raggiungibili con i mezzi pubblici;
  • al di fuori delle zone di spaccio ma facilmente raggiungibili da queste.

La scelta dell’ambulatorio mobile ed i criteri adottati per le fermate hanno consentito all’Unità Mobile di somministrare metadone in strada a migliaia di persone per circa un ventennio senza problemi rilevanti di compatibilità ambientale ed ordine pubblico. L’Unità Mobile non ha mai fatto notizia in cronaca nera e ciò era esattamente quello che volevo.

Le linee principali del progetto erano tracciate, adesso occorreva condividerlo con tutti i soggetti che, a vario titolo, si occupavano di contrasto alle conseguenze negative della diffusione del consumo di droghe in città.

 

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