Eroina ed immigrazione. Parte quarta: sono solo spacciatori
UN SERT SENZA IMMIGRATI
Ho cominciato a lavorare al SerT nell’aprile del 1994, il primo aprile per la precisione. Quando arrivò la lettera di assunzione dovetti faticare per rimuovere il timore che si trattasse di un pesce d’aprile. Mi ero licenziato un mese prima dal carcere: avevo un assoluto bisogno di interporre un mese sabbatico fra quell’inferno ed il nuovo lavoro e così decisi di passare tre settimane su una spiaggia vicino all’equatore. Col senno di poi, mai decisione fu più saggia e quella ancora oggi rimane l’unica vera vacanza della mia vita: il mio lavoro e le vicende personali non mi hanno mai più concesso un’opportunità del genere. Lasciai il lavoro in carcere un po’ a malincuore. Era un lavoro durissimo, ma alla fine mi piaceva: i turni di notte mi lasciavano molto tempo libero durante il giorno e c’era tanta tragica umanità in quello che vedevo. Mi sono sempre sentito un po’ un privilegiato per avere avuto l’opportunità di lavorare in carcere. Avevo avuto accesso ad una parte nascosta della realtà che pochi conoscevano. Se da una parte il carcere traboccava ormai di tossicodipendenti da eroina, italiani e stranieri, c’erano anche le persone per cui era stato pensato e costruito, ovvero i criminali, anche se ormai minoranza. Nomi famosi, assurti alla cronaca nera del paese e restati in prima pagina per settimane: presunti stragisti, assassini, boss mafiosi, rapinatori, ognuno con la sua storia, tanto nera e tragica, quanto spesso banale. Sentivo di aver imparato molto in carcere e che quel luogo così chiuso, in realtà, aveva allargato il mio orizzonte. Soprattutto, in carcere avevo imparato una cosa fondamentale, che mi porterò dietro per tutta la mia vita professionale, ovvero ad essere capace di comprendere fino in fondo la sofferenza delle persone senza parteciparvi emotivamente. E’ una misura molto stretta e difficile da trovare, ma è indispensabile, se si vuole sopravvivere ed essere veramente utili con il proprio lavoro. Altrimenti si diventa solo i destinatari di uno sfogo, che reca sollievo a chi lo mette in atto e carica di sofferenza chi vi partecipa. Il coinvolgimento emotivo, oltre che essere inopportuno, riduce l’efficacia dell’operatore. Non gli consente di esercitare il suo ruolo, diventando così sconveniente per lo stesso paziente e spalancando le porte al rischio di un rapporto collusivo con persone che, per loro natura, sono portate a manipolare. Il carcere mi ha insegnato a trovare la giusta distanza in tutto ciò, a comprendere a fondo senza partecipare, cercando di restare lucido e presente e preservando contemporaneamente me stesso.
La legge 309/90 non si era limitata ad istituire i SerT, ma aveva anche stabilito le funzioni, le tipologie di operatori e le prestazioni che dovevano garantire. Da questo punto di vista la nostra è una delle leggi più civili al mondo. A Bologna, all’epoca, c’erano tre USL, ad ognuna delle quali corrispondeva un SerT, che poi altro non era se non l’evoluzione di un servizio precedente, istituito quando non vi erano leggi specifiche ed ognuno seguiva il proprio orientamento e le proprie convinzioni. Ne derivava che ognuno sei SerT aveva una sua storia, molto differente da quella degli altri due, mentre iniziava il lento processo che doveva portare, inevitabilmente, ad uniformare le prestazioni. Il SerT presso il quale ero stato assunto proveniva da un servizio che effettuava solo inserimenti in comunità terapeutica preceduti da disintossicazione in ospedale, nel quale il medico era presente una volta la settimana e che solo da pochi anni si era aperto al trattamento farmacologico con metadone. Un SerT composto soprattutto di psicologi ed assistenti sociali nel quale, in pochi mesi, vennero assunti ben quattro medici. All’epoca il Governo non lesinava sulle dipendenze. Queste assunzioni cambiarono il volto del servizio, peraltro senza grossi traumi ma questo processo, come tutti i processi, richiese i suoi tempi. Quando arrivai al SerT trovai una popolazione di eroinomani completamente differente da quella che avevo conosciuto in carcere e l’impatto per me fu evidente, tanto che chiesi ai colleghi: “Scusate, ma dove sono i tossici?”. I pazienti che prendevo in carico al SerT, infatti, erano molto diversi dagli eroinomani che avevo conosciuto in carcere. Solo una piccola quota corrispondeva. Mancavano quelli più gravi, quelli che vedevo entrare ed uscire più volte in un anno, quelli che vivevano in strada. Soprattutto, però, mancavano completamente gli immigrati. Neanche uno, quando in carcere erano ormai il 30%. Una differenza così non si poteva non notare.
SONO SOLO SPACCIATORI
Fu inevitabile chiedere ai colleghi dove fossero finiti gli stranieri, quali programmi si facessero per loro. Le mie domande, però, provocavano reazioni altrettanto stupite. Per tutti loro gli extracomunitari, fino a quel momento, erano solo degli spacciatori, quelli di cui si leggeva sempre più spesso sul giornale. A confermarlo erano gli stessi pazienti, che all’epoca non avevano alcun altro contatto con loro se non quello che avveniva al momento dello scambio. Anche per gli eroinomani italiani i tunisini erano solo dei pusher, per di più poco gradevoli. Ma la roba in strada, ormai, la trovavi solo da loro e per questo i tossicodipendenti italiani erano costretti ad averci a che fare. Il minimo indispensabile, però, giusto il tempo di concludere. Scalfire questa convinzione fu tutt’altro che semplice.
Il metadone aveva fatto il suo ingresso in carcere e la direzione sanitaria garantiva la continuità del trattamento a chi già lo effettuava all’esterno, ma occorreva scalare: il carcere non era attrezzato per continuare il trattamento. Mi venne assegnato il compito di gestire questa fase della terapia nei detenuti. Così, pochi mesi dopo esserne uscito, tornai in carcere, intenzionato ad approfittarne per fare una pubblicazione che dimostrasse che i cosiddetti spacciatori tunisini erano in realtà anche dei tossicodipendenti. All’epoca, fare uno studio in carcere era tutt’altro che semplice. Occorreva inoltrare una richiesta di autorizzazione ministeriale che, puntualmente, veniva ignorata. Non rispondevano mai, come se uno non l’avesse mai chiesta. Ne parlai allora con il Direttore, una bravissima persona che purtroppo non c’è più, il quale aveva un grande interesse al fatto che questa consapevolezza uscisse dalle mura della galera. Il direttore fu laconico: “Siamo in Italia, dottore. Se uno vuole fare le cose per bene non le farà mai. Se invece uno le fa senza chiedere il permesso, nessuno gli dice nulla. I registri lei sa benissimo dove si trovano”. Si riferiva ai registri delle visite Nuovi Giunti. Lo studio che volevo fare era molto semplice: leggere una ad una tutte le schede degli stranieri e contare quanti di loro potessero essere considerati tossicodipendenti, basandomi sull’esame obbiettivo del medico di guardia che li aveva visitati e sulla terapia instaurata. Passai al setaccio tutti i registri del 1993, 1994 e 1995 (in tutto circa 1500 ingressi di stranieri) e pubblicai il lavoro sul Bollettino per le Farmacodipendenze e l’Alcolismo nel 1996[1]. L’articolo, in sintesi, dimostrava che il numero di detenuti stranieri con problemi di dipendenza tendeva a crescere esponenzialmente e che la maggior parte degli stranieri arrestati per spaccio sviluppava un’astinenza all’ingresso in carcere, riceveva una terapia per superarla e quindi aveva una tossicodipendenza, anche se non per via venosa. Nelle conclusioni, veniva ribadito che esisteva una evidente disparità di trattamento fra italiani e stranieri nel momento in cui non veniva riconosciuta la condizione di tossicodipendenza ai secondi, perchè non avevano accesso alle cure ed alle misure alternative. In ultimo, facevo osservare che occorreva sviluppare un approccio che tenesse conto della cultura di queste persone e, soprattutto, degli impedimenti nella terapia derivanti dalla condizione di clandestinità. L’articolo metteva il dito nella piaga, ma non vi fu un grosso seguito, quanto piuttosto un certo imbarazzo. Chiamarli solo spacciatori tunisini stava diventando sempre più difficile, ma nessuno sembrava volesse affrontare veramente questo problema, che continuava ad evolvere indisturbato.
Erano ormai passati cinque anni dai primi casi che avevo osservato e l’unica istituzione che riconosceva la condizione di tossicodipendenza a queste persone era il carcere, che era anche l’unico luogo in cui ricevevano un minimo di cure.
Così, mentre i SerT cominciavano la loro azione efficace nei confronti degli eroinomani italiani, gli stranieri tenevano vivo il fenomeno ed il mercato dell’eroina.
[1] Giancane S., “Prevalenza dell’abuso di sostanze stupefacenti e psicotrope tra i detenuti extracomunitari nuovi giunti nel carcere di Bologna 1993-95” in. Bollettino per la Farmacodipendenza e l’Alcoolismo, 19,4,1996,pp.23-27