I SerT che spariscono

Sono tornato dalle ferie tre giorni fa dopo una settimana di vacanza. Il nostro lavoro e la mia età mi hanno fatto diventare sensibile a quello che accade intorno a me, così man mano che arrivavano le notizie dai servizi – i nostri si chiamano Ser.T. – ho cominciato a manifestare i primi segnali di malessere. Lo ammetto: ho scelto questo lavoro ogni giorno di più, non mi sono stancato fino ad oggi ed anzi mi sento sempre più al posto giusto, da venticinque anni felicemente psicologo e responsabile di una comunità terapeuticoriabilitativa della provincia di Catania.

Però le notizie che arrivano sui colleghi dei servizi, che avevo cominciato a ricevere ancora prima delle ferie, adesso sono diventate un ammasso gigante di sventura. E’ da circa un anno e mezzo che assistiamo al lento ed inesorabile assottigliamento del numero dei colleghi in servizio: è la pensione, un fatto normale, evolutivo, si sapeva che sarebbe stato così. Questo evento ha cominciato però ad estendere a macchia d’olio tutta una serie di conseguenze, anche queste più o meno prevedibili rispetto al movimento degli operatori tra le sedi, come – credo di aver capito – bilanciamento delle scoperture dei ruoli lasciati liberi da chi è andato in pensione. Che sia chiaro non è di questo che voglio interessarmi, sono fatti dell’azienda sanitaria sui quali non avrei nessun titolo e competenza.

Ciò che invece sta diventando sempre più evidente è invece l’effetto dell’“ombra” del settore “salute mentale” su questi movimenti di operatori nei servizi per le dipendenze, la sensazione è di assistere al rimpasto di operatori e competenze senza grande interesse per quello che è il territorio, inteso come contesto operativo, come “locus”: cioè la malevola, dolorosa sensazione è che del territorio e di quello che si è costruito in questi anni non importi molto a “chi sposta le risorse” da una lato all’altro di questa città complessa e bisognosa che è Catania, ma anche della provincia. La sensazione è che questa tornata di riposizionamenti sia ispirata, da una certa psichiatria coloniale ed autoreferenziale, al fine di piazzare, ridefinire, appiattire ad un certo controllo tutto l’ambito, non riconoscendo le peculiarità della presa in carico della persona che ha un problema con le sostanze ed i comportamenti d’abuso o di dipendenza. Vale lo stesso anche per altre dipendenze patologiche comportamentali.

Oggi ero ad ascoltare un ex utente di un quartiere periferico, mi ha chiamato per parlarmi del nipote che usa “crack”; ci capita che le persone che hanno fatto i loro “passaggi” di vita diventino poi dei riferimenti per il territorio, per la famiglia allargata, degli esempi che si può fare, che dai problemi con le sostanze ci si può svincolare. Lui non vaccinato, quindi gli ho chiesto di restare in strada, sotto casa. Mi raccontava degli ultimi “sparati”, poi degli ultimi morti per infarto od overdose di cocaina; poi mi raccontava che metà dei ragazzi del condominio sono in galera, perché vivendo con lo spaccio prima o poi ci finisci e che ciononostante la gente non sa come emanciparsi da questa “pena”. Nel frattempo il quartiere mi scorreva davanti con gli abitanti che vi ho conosciuto. Qui ho avuto altri segnali del mio malessere, mi sono trovato ad arrabbiarmi, ritornando a tutte le storie che conosco e chiedendomi che ne sarebbe stato. Le storie delle persone che usano non vanno psichiatrizzate, anzi lo sono già troppo, a tratti. Come si fa a leggere un territorio così complesso, cosi complicato nelle sue diverse strade ed esperienze di dolore, senza avere qualcuno che ti accompagni perché ha fatto lo stesso percorso prima di te? Non lo impari all’università ad avere a che fare con il dolore, con la paura, tua e di chi ti sta davanti: è lì che la procedura psichiatrica diventa una tentazione, un evitamento-fuga dalla relazione. Nel DSM 5 non ti descrivono come sentirti e quali risorse utilizzare davanti ad un fenomeno che cambia sotto i tuoi occhi e nella stessa persona. Come possiamo aver sprecato le conoscenze, le esperienze di una generazione di colleghi che se ne sta andando in silenzio, lasciando sedie e stanze vuote, in un momento in cui il territorio brama di aiuto e presenza: prossimità! Forse che questi ambulatori siano fuori moda? Forse che basterà aprire altre comunità alle quali delegare la terapia e riabilitazione? Con quali garanzie? Con quali linguaggi ed interessi? E me lo chiedo io che vengo dal privato! Si può smantellare il sistema pubblico così? Voglio dire con queste azioni sugli operatori, senza una regia attenta anche al territorio, vengono smantellate le conoscenze della medicina e della psicologia e dell’azione di contrasto tutta dedicata alle tematiche patologiche connesse all’uso di sostanze; queste conoscenze stanno per essere smantellate, ridimensionate, discreditate perché la medicina delle tematiche correlate all’uso problematico, all’abuso ed alle dipendenze dalle sostanze psicoattive non è la psichiatrizzazione dei fenomeni. Non è e non può essere tornare al punto di partenza di trent’anni fa, cancellando tutto il bene, tutta la prossimità, tutto il tempo che abbiamo impiegato per farci insegnare dalle persone stesse come potevano essere aiutate. Certa ricerca scientifica che abbiamo prodotto o contribuito a produrre che senso ha avuto se adesso tornassimo alla vecchia modalità del rapporto con il sintomo e non con la persona? La prevenzione non è esattamente uno degli ambiti della psichiatria, per esempio. Assimilare ancora più ai metodi della psichiatria, ridurre ai suoi protocolli, significa lasciare fuori molta gente che non troverà più accesso al servizio stesso, che finirà per ingrossare gli studi medici e psicoterapeutici blasonati, per chi può. Mentre per chi non può sarà il carcere, saranno le misure di sicurezza, l’ospedale, la psichiatria come percorso a scandire i tempi della relazione d’aiuto.

Una miseria dopo l’altra e adesso anche questo. Penso ai minori, penso alle famiglie, penso al rapporto con i tribunali, con il carcere; penso alle NPS, all’alcol, al fiume di cocaina e crack, penso alle famiglie mafiose, allo spaccio, penso alle ricadute; penso al combinato tribunale-carcere-psichiatria e vedo solo cronicità, paura, marginalità. Penso alla follia della riduzione della spesa fatta sul sistema sanitario pubblico.

E se questa fosse un’epidemia? Ogni tanto la chiamavano così quando si moriva di più di eroina; non si considera adesso che i morti con l’alcol, con la cocaina, con il carcere, con il gap, sono molti di più, però non è più un’epidemia.

4 pensieri riguardo “I SerT che spariscono

  1. Sestio ha detto:

    Nella mia vita ho conosciuto migliaia di drogati. Dal mio punto di osservazione, che è stato sempre esterno a quello “ufficiale” (e che penso sia sovrapponibile a quello di molti altri cittadini), direi che una grande percentuale dei drogati, a scadenza di quasi 50 anni, è andato incontro a fenomeni di recupero spontaneo (o “agevolato”) al di fuori dei percorsi canonici. Percentuale crescente in ragione dell’arco di tempo considerato. Il che mi sembra più o meno corrispondere ai dati considerati da Gene Heyman nel suo lavoro.
    In Italia i SerD costano complessivamente circa un miliardo e centocinquanta milioni di Euro l’anno. Dagli anni ’80 del secolo scorso ad oggi, il numero dei morti per overdose si è ridotto di un migliaio (scarso) di casi annui. Il numero dei contagi HIV si è contratto, per poi stabilizzarsi, cambiando veicolo di diffusione: dalle siringhe al sesso.
    Dunque abbiamo speso più di un milione di Euro per ogni decesso da overdose in meno. Un milione di Euro copre i costi di oltre 2 anni di ricoveri in regime di terapia ad alta intensità di cura e complessità assistenziale.
    Quanti decessi si possono evitare in due anni di terapia intensiva?
    Buon week end a tutti

    1. Mi sembra un commento che trascura vari aspetti tecnici, economici, e umani.

      Tecnici: la morte in acuto per overdose non è l’unico esito negativo del consumo incontrollato di sostanze psicoattive. Se lei, Sestio, ha varie decadi di esperienza, non avrà bisogno che gliele elenchi.
      Per chi non ha questa esperienza: malattia, problemi familiari, problemi legali, perdita del lavoro e altri problemi sociali, morte per cause indirette.

      Economici: nella sua valutazione economica non tiene conto del valore economico di queste morti quasi sempre precoci, sia come mancato apporto di lavoro = soldi alla società, sia del denaro risparmiato per le cure intensive, sia per le cure di patologie correlate, e tutto il resto elencato prima.

      Umani: a fare la divisione di soldi diviso morti, confrontando con altre materie, dà l’idea che certi morti evitati non valgano la spesa. Umanamente non lo condivido

    2. lucaborello ha detto:

      Buongiorno Sestio, non mi è chiara la sua posizione.
      La cosiddetta “remissione spontanea” è un fenomeno noto e purtroppo poco studiato (il Italiano trova “Riuscire a Smettere” di Scarscelli, uno studio che mette a confronto il percorso “spontaneo” con quello “istituzionale”). Non so in che modo lei “calcola” le percentuali a cui fa riferimento, e come possa “corrispondere” a quelle citate da Heyman, che si riferisce a una realtà diversa (è di Boston…). Mi pare che lei metta in “competizione” remissione spontanea e Ser.t, quasi dicendo che i secondi sono uno “spreco di soldi” perché si può smettere da soli. In effetti è vero, è possibile, ma non per tutti. La dipendenza è un fenomeno molto complesso, multifattoriale, e non tutti possiedono le risorse per affrontarla e gestirla (perché non è mica detto che si debba per forza smettere). Anche chi “smette” o “controlla” con l’aiuto del Ser.t e dei servizi del privato sociale, di fatto, lo fa da solo: il servizio lo sostiene, indirizza, costruisce un percorso. Molte delle persone che lei cita avranno anche smesso da sole, ma non escludo che nella loro vita siano state in carico e che questo le abbia aiutate a trovare le risorse per smettere, SE lo desiderano. Magari non hanno smesso MENTRE erano in carico o inseriti in un servizio, ma questo non significa che i Ser.t non abbiano svolto il loro ruolo.

      Secondo punto: i Ser.t non nascono per evitare i decessi di overdose o contagi (per quello esistono servizi dedicati detti di “Riduzione del danno”). Quindi calcolare il costo dei Ser.t sulla base delle overdosi evitate è abbastanza assurdo, più o meno come calcolare il valore di un carrozziere in base alla diminuzione degli incidenti stradali…

      Non mi è affatto chiaro il rapporto con le terapie intensive che cita in fondo al suo commento. Vuol forse dire, in buona sostanza, che le persone tossicodipendenti debbono solo decidere di smettere e qualunque investimento nella cura non ha senso, e andrebbe indirizzato altrove?

  2. Sestio ha detto:

    Sarebbe stato assolutamente sorprendente che lei condividesse il mio punto di vista.
    Trovo del tutto comprensibile che lei trovi da eccepire, come io potrei eccepire sui suoi argomenti.
    In ogni caso molto difficile, forse impossibile, ancorare gli enunciati generici sopra proposti a dati precisi, oggettivi ed esaustivi.
    Tendo a una visione dialettica della realtà, per cui trovo umanamente del tutto accettabili il conflitto, la divergenza, il dissenso. Soprattutto in relazione agli inevitabili limiti delle risorse.
    Ho anche fiducia nel libero arbitrio, a mio avviso spesso trascurato, seppur residuale, anche dei malati o presunti tali.

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