Cannabis legale o illegale? Questo è il dilemma

È un grande onore accogliere sul nostro blog questo contributo di Paolo Nencini, già Professore Ordinario di Farmacologia presso l’Università di Roma “La Sapienza”, su un tema controverso che periodicamente viene affrontato nel dibattito sociale, mediatico e politico.

CANNABIS LEGALE O ILLEGALE? QUESTO È IL DILEMMA

Paolo Nencini
Unitelma Sapienza, Università degli Studi di Roma

Complici una campagna elettorale assai combattuta e una sentenza della Cassazione, la cannabis, questa volta nella sua versione light, ha per qualche giorno riconquistato la prima pagina dei quotidiani. Al di là dei tecnicismi giuridici, è chiaro che in Italia ancora prevale l’approccio cautelativo basato sulla nozione che la cannabis ha effetti collaterali in grado di compromettere lo stato di salute, soprattutto nei soggetti in età dello sviluppo. È prassi in questi casi citare studi spigolati dalla più recente letteratura concernente la farmaco-tossicologia della cannabis, ma anche se si proponessero studi di dieci o di venti anni fa si potrebbe tranquillamente giungere alla conclusione che la cannabis è dannosa negli adolescenti e che è quindi necessario impedire che ne facciano uso. Il problema è come raggiungere questo obiettivo e se si vuole fare i conti con la realtà, non si può non convenire che il divieto dell’uso voluttuario della cannabis vigente da quasi un secolo non ha impedito che negli ultimi decenni tale uso assumesse dimensioni sempre più rilevanti anche tra i più giovani.

Che cos’è dunque che non ha funzionato? Per cercare di capirlo, vale la pena ricapitolare brevemente lo sviluppo del sistema internazionale di controllo sulla cannabis. Dobbiamo subito notare che esso compare più tardivamente di quello sugli oppiacei e sulla cocaina e cioè con la Convenzione di Ginevra del 1925, ma limitatamente al divieto d’esportazione della resina verso i paesi che ne avevano proibito l’uso. Il numero di tali paesi era molto limitato (l’Italia era tra di essi), ma la delibera della Convenzione sollecitò l’introduzione del bando nella legislazione delle maggiori potenze del tempo. È importante tenere presente che comunque la cannabis mantenne una sua dignità terapeutica, per quanto limitata, e fu quindi un colpo decisivo quello inferto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che nel 1952 espresse il parere che “cannabis preparations are pratically obsolete. So far as it can see, there is no justification for the medical use of cannabis preparations.” (World Health Organization, 1952, p.11). Infatti, vista la sua inutilità terapeutica, fu possibile includere la cannabis tra le “most dangerous substances […], which are particularly harmful and of extremely limited medical or therapeutica values”, come recitava la Convenzione unica sugli stupefacenti del 1961, emendata nel 1972. Insomma fu possibile inserirla nella famigerata quarta tabella a tener compagnia all’eroina; come vedremo, dovranno passare molti decenni perché l’OMS ritrattasse una così drastica opinione.

Nessuno naturalmente può dire quale sarebbe stata la storia dell’uso voluttuario della cannabis se tale uso non fosse stato sanzionato in maniera così intransigente, ma certo non è stato sufficiente a impedirne la sperimentazione da parte di una frazione consistente della popolazione. Se ci basiamo sui dati dell’Osservatorio europeo sulla droga del 2019 (EMCDDA: Relazione Europea Sulla Droga. Tendenze e Sviluppi. 2019), apprendiamo infatti che la prevalenza del consumo di cannabis è stata di circa cinque volte superiore a quella delle altre sostanze (p.39), cosicché risulta che 91.2 milioni di adulti nell’Unione europea (15-64 anni), pari al 27.4 % di questa fascia d’età, hanno provato la cannabis nel corso della propria vita (p.15). Se si considerano solo i 15-24enni, il 18 % (10,1 milioni) ha fatto uso di questa droga nell’ultimo anno e il 9,3 % (5,2 milioni) nell’ultimo mese (p.44). Né l’attuale regime giuridico ha impedito che nell’ultimo decennio il contenuto in THC della cannabis presente nel mercato illegale europeo raddoppiasse: fatta cento la potenza in termini di percentuale in THC nel 2007, nel 2017 si era raggiunto infatti il livello di 211 (p.23). Infine, a conferma di studi condotti negli anni novanta, si è notato che il regime di parziale decriminalizzazione in atto ad Amsterdam non ha condotto ad un aumento del possesso ed uso di cannabis rispetto a San Francisco quando vi era in vigore un regime di rigorosa proibizione (Csete J. et al., 2016).

Una riflessione sullo scarto tra obiettivi e risultati della politica di proibizione dell’uso voluttuario della cannabis deve tenere conto del principio che ha guidato l’ormai più che secolare lotta al consumo della droga e cioè che tale consumo è da considerarsi come una malattia trasmissibile: “…heroin addiction [is] a communicable disease in the classical sense, with the drug itself being the infectious agent, the host and reservoir being man, and the drug-using peer as the vector.” (Kozel, 1986). Come ha notato uno storico americano, da questa omologazione è derivata una politica che ha avuto come obiettivo l’eradicazione della produzione e distribuzione di stupefacenti, senza porre in atto strategie atte a ridurre la domanda (McAllister, 2000, p.49). Questo approccio guida tutt’ora le normative nazionali e internazionali, come dimostra la Risoluzione adottata dalla Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 19 aprile 2016: “We reaffirm our determination to tackle the world drug problem and to actively promote a society free of drug abuse […]”.

Purtroppo gli stupefacenti si sono dimostrati più resistenti delle zanzare portatrici della malaria e malgrado l’inflessibile determinazione degli organismi internazionali, è stata ripetutamente affermata l’insostenibilità di un rigido perseguimento di un così ambizioso obiettivo; si veda ad esempio il documento prodotto dalla Johns Hopkins– Lancet Commission on Drug Policy and Health (Csete J. et al., 2016) che ha evidenziato le criticità di ordine sanitario, sociale, economico e politico dell’attuale sistema di controllo. Destinatari di questo documento erano gli organismi internazionali e se essi non sono sembrati ancora pronti ad accogliere l’invito ad una maggiore flessibilità, è altrettanto vero che, come è stato scritto, “Few still seriously speak of a ‘drug free world’”, mentre sono sempre più numerosi coloro che guardano con interesse all’attuale sperimentazione normativa indirizzata ad introdurre una maggiore flessibilità nel controllo della cannabis e di altre sostanze d’uso voluttuario (Collins, 2018).

In effetti, la fortezza normativa in cui è stata rinchiusa la cannabis ha cominciato a mostrare segni di cedimento. È ben noto infatti che l’Uruguay ne ha legalizzato l’uso voluttuario nel 2013 e il Canada nel 2018; negli Stati Uniti, invece, 29 stati l’hanno legalizzato a scopo terapeutico e 9 anche per quello voluttuario. Ultima in ordine di tempo (24 gennaio 2019) è arrivata la raccomandazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità alle Nazioni Unite di espungere la cannabis e la sua resina dalla tabella IV della Single Convention on Narcotic Drugs del 1961, al fine di permetterne un migliore sfruttamento delle potenzialità terapeutiche (“WHO recommends rescheduling of cannabis”, EMCDDA home page).

Non pochi hanno considerato i tentativi di gestione flessibile a livello nazionale dell’uso voluttuario di cannabis come il risultato dello spregiudicato sfruttamento ai fini fiscali di un comportamento insalubre. In effetti i profitti resi dal traffico illegale della cannabis sono di dimensioni cospicue e pur limitandosi al solo confine tra Messico e Stati Uniti si ritiene che esso frutti circa 2 miliardi dollari all’anno ai cartelli messicani, appena un po’ meno della cocaina, i cui profitti ammonterebbero a 2.4 miliardi (Csete J. et al., 2016). Tenuto conto della prassi secolare di tassare i “vizi” dei cittadini, è normale che gli stati inclini al pragmatismo cerchino di far emergere una tale massa di profitti in favore dei propri bilanci. A tal proposito sarebbe bene tenere a mente ciò che avvenne nel diciassettesimo secolo con il tabacco, il caffè e gli alcolici, così come ha notato uno storico: “Moralism and preachers continued to inveigh against the satanic origin or the debilitating effect of tobacco, coffee, or liquor, but lost ground to bureaucrats who realized that the addictive substances, far from just draining bullion, might actually be turned into source of profit. For the European early modern state, burdened by ever-growing military and administrative expenditure, tobacco, coffee, and liquor offered a welcome opportunity to expand its tax base.” (Matthee, 1995, p.32).

Lasciamo da parte il caffè sul cui uso voluttuario suppongo che nessuno abbia più da eccepire, per notare che nel caso del tabacco e delle bevande alcoliche, le esigenze fiscali degli stati e di profitto delle imprese non hanno impedito che negli ultimi decenni si sviluppasse in segmenti sempre più vasti di consumatori la consapevolezza dei rischi connessi al loro consumo, inducendo in molti un rimodellamento del comportamento di assunzione. Nel caso del tabacco, la cognizione che il nesso causale con il cancro del polmone è reale e non controverso, come voleva far credere l’industria del tabacco con le sue ricerche tendenziose, e la progressiva svalutazione sociale del fumo -quale personaggio da copertina o personalità pubblica oggi si farebbe cogliere con la sigaretta in bocca?-, hanno condotto alla introduzione di norme che hanno di fatto espulso il fumo dalla vita di comunità, relegandolo alla sfera del privato. Il risultato lo vediamo nella progressiva ed impressionante riduzione del numero di fumatori: nel dopoguerra in Gran Bretagna i due terzi dei maschi adulti fumava, oggi solo il 17%; in Italia lo era il 65% nel 1957 e il 23.9% sessant’anni dopo. Anche nel caso delle bevande alcoliche, è stato possibile osservare, soprattutto in Italia, una costante riduzione del consumo di alcol pro capite, del bere problematico e della mortalità da malattie alcol-correlate. Anche in questo caso non possono non aver inciso gli interventi normativi che sanzionano l’ebrezza alcolica alla guida o sul luogo di lavoro, così come non si può minimizzare il ruolo del discredito sociale che è andato progressivamente ad accrescersi attorno al bere in eccesso.
L’insegnamento che possiamo trarre dal tabacco e dalle bevande alcoliche è che, pur in condizioni di legalizzazione, è possibile plasmare il comportamento dei consumatori, incoraggiando l’astinenza o il consumo sobrio; anzi, v’è da chiedersi se forse non sia la migliore strategia per favorire questi cambiamenti.

Tornando alla cannabis, è ormai chiaro che si sta consolidando una tendenza verso la legalizzazione del suo uso voluttuario e quindi, come è stato osservato (Caulkins, 2016), più che discutere se questa sia una buona idea, sarebbe il caso di stabilire quale sia il modo migliore di metterla in atto, tenuto conto che, proprio perché si tratta di legalizzazione e non di liberalizzazione, non può consistere in una alternativa secca tra commercializzazione e proibizione. Tra i vari problemi sollevati, forse il più serio, almeno in questa sede, consiste nel fatto che gli adulti che usano cannabis meno di dieci volte al mese e che quindi non presentano una condizione di abuso o dipendenza, pur essendo la maggioranza, consumano meno del 5% del totale, mentre più del 50% è consumato da una relativamente piccola minoranza (Caulkins, 2016). Come risponderanno questi forti consumatori ad una commercializzazione della cannabis tale da ridurne presumibilmente il prezzo? Non sarebbe forse meglio creare un regime di monopolio che permetta la stabilità dei prezzi e delle concentrazioni di THC? Un flusso notevole di studi condotti soprattutto negli Stati Uniti sta valutando le conseguenze sanitarie, sociali e sull’epidemiologia dell’uso di altre droghe, ma evidentemente è ancora presto per trarre conclusioni affidabili. Come è stato recentemente notato, occorrerà una generazione almeno per determinare appieno le conseguenze di una eventuale diffusa legalizzazione della cannabis (Caulkins et al, 2016). Così come, del resto, ne sono servite almeno un paio per mettere in evidenza le debolezze dell’attuale regime di controllo.

Le vicende di questi giorni ci dicono che in Italia è ancora molto forte la posizione di chi ritiene che debba essere mantenuto un regime proibizionista, pur se temperato da una certa flessibilità sanzionatoria. Nella misura in cui l’Italia appartiene alla minoranza dei paesi della Comunità europea che non prevedono l’arresto per la detenzione di cannabis per uso personale, non possiamo considerare il nostro paese collocato in una posizione irragionevolmente conservatrice. Ciononostante dovrebbe crescere la consapevolezza che la strada sinora battuta è stata avara di risultati e che è arrivato il momento di prendere in seria considerazione l’esempio di chi ha cominciato a sperimentare nuove strategie. Ci siamo appena recati alle urne per eleggere i rappresentanti al parlamento europeo e nuove forze si apprestano ad un’opera legislativa quinquennale: non potrebbe essere quella la sede per un approfondito dibattito che permetta di affrontare su basi nuove e tutti insieme la questione della cannabis?

Bibliografia

Caulkins JP, Kilmer B. Considering marijuana legalization carefully: insights for other jurisdictions from analysis for Vermont. Addiction. 2016 Dec;111(12):2082-2089.

Collins J. Rethinking ‘flexibilities’ in the international drug control system—Potential, precedents and models for reforms. International Journal of Drug Policy. 2018; 60:107-114.

Csete J. et al. Public health and international drug policy. [Johns Hopkins– Lancet Commission on Drug Policy and Health] Lancet. 2016;387:1427-1480.

EMCDDA: Relazione Europea Sulla Droga. Tendenze e Sviluppi. 2019.

Kozel NJ, Adams EH. Epidemiology of drug abuse: an overview. Science. 1986; 234:970-4.

Matthee R. Exotic substances: the introduction and global spread of tobacco, coffee, cocoa, tea, and distilled liquor, sixteenth to eighteenth centuries. In: Porter R. & Teich M. eds. Drugs and narcotics in history. Cambridge University Press 1995.

McAllister W.B. Drug diplomacy in the twentieth century. An international history. Routledge 2000.
World Health Organization. Technical Report Series. No. 57. March 1952.

2 pensieri riguardo “Cannabis legale o illegale? Questo è il dilemma

  1. privato sociale ha detto:

    Purtroppo la risposta è: NO, non sarà quella la sede, temo.
    La domanda a questo punto è: perché? Nel senso che andrebbe fatta proprio una ricerca psicosociale, forse etnografica, sul popolo del proibizionismo, dato che eludono ogni razionalità, anche il più bieco calcolo economico di costi e benefici.

    Si è proibizionisti perché vietare è più semplice e veloce, e la responsabilità ricade solo su chi infrange il divieto?
    Si è proibizionisti per difendere l’ultimo baluardo di moralità “ancient regime”, dato che i capisaldi della famiglia, della patria e della sessualità sono quantomeno in discussione?
    Si è proibizionisti perché (e qui siamo -quasi- nel complottismo) in fondo i “poteri forti” han bisogno di un nemico per giustificare poltrone, poteri e stipendi?
    Si è proibizionisti perché (complottismo massimo) ci guadagna la criminalità organizzata, e la criminalità organizzata controlla i poteri forti?
    Si è proibizionisti in forza di un enorme, potentissimo, tabù culturale?

    O forse si è proibizionisti (anche) perché le posizioni antiproibizioniste (solide, sfumate, molto diverse tra loro:dicendo “antiproibizionismo” semplifico io per primo) restano ancora relegate, nell’immaginario, all’orbita dei “centri sociali”, della canna libera, e via dicendo. Sebbene la scienza si sia espressa, e sebbene persino i promotori della War on Drugs abbiano fatto enormi passi indietro (avanti?) almeno sulla cannabis, nella cultura popolare/mediatica italiana (ed europea), il discorso proibizionismo/antiproibizionismo è polarizzato. I proibizionisti appaiono come coloro che hanno a cuore i “giovani”, e fan di tutto per evitare che si droghino (e se poi questi lo fanno in fondo è un problema loro: noi l’abbiam detto che è vietato); gli antiproibizionisti, magari hanno anche ragione, ma parlano di massimi sistemi e sono degli ingenui sconsiderati (quando non mirano proprio al disordine sociale).
    Credo poi che, soprattutto in Italia, il discorso antiproibizionista oscilli tra eccessiva cautela da un lato (quello rappresentato dal versante diciamo scientifico/accademico), e eccessiva arroganza dall’altro (quello degli attivisti più combattivi che scivolano talvolta nell’errore di sminuire la legittima paura che l’uomo della strada ha della “droga”; e, in modo simmetrico alla loro controparte, tendono a semplificare la questione droga come una specie di gigantesca invenzione del potere che non conterebbe vittime se non fosse per la situazione legale delle sostanze). C’è del vero un po’ in tutto questo, credo. Voi cosa ne pensate?

    1. Non dimentichiamo il tema politico identitario, utilizzato come insegna per radunare il proprio popolo nell’imminenza delle tornate elettorali.

Lascia un commento