Cinema e droghe: Amore tossico, l’eroina prima dei SerT.

Locandina di Amore tossico

Quando uscì Amore tossico avevo 25 anni e stavo per laurearmi. Ricordo ancora le locandine sotto i portici di via Rizzoli, a Bologna. Non andai a vederlo. Pensai che si trattasse di un film banale, una sorta di Christiane F casereccio. Del resto, quello che il film raccontava io lo potevo vedere ogni giorno, dato che andavo a mensa in zona universitaria, per fare meno fila. Pochi andavano a mangiare alla mensa di Piazza Verdi, perché ci andavano molti tossici. In quegli anni gli eroinomani che frequentavano la mensa erano così tanti che, alla fine, qualcuno finivi inevitabilmente col conoscerlo e, con lui, conoscevi alcuni spaccati vita da tossico, almeno fino a quando non ti fregava e decidevi di tenerlo alla larga. Quello che non imparavi dall’amico tossico, lo potevi apprendere dai fumetti di Andrea Pazienza. Tutti leggevano Pazienza in quegli anni a Bologna. Per tutti questi motivi, un po’ presuntuosamente, non andai al cinema a vedere Amore tossico, bollandolo come un film di serie B, che sicuramente voleva fare sensazione sul tema dell’eroina, molto acuto in quegli anni.

Dovette trascorrere un quarto di secolo perchè trovassi l’umiltà necessaria per vederlo e, come spesso accade, questo portò a modificare radicalmente la mia opinione. Del resto, non sarebbe mai il caso di avere un’opinione su un film che non si è mai visto, ma questo diventa chiaro solo quando cominciano ad affievolirsi le granitiche certezze della gioventù. A spingermi alla visione, il ruolo di Guido Blumir nella supervisione al soggetto ed alla sceneggiatura: avevo letto Blumir ed avuto modo di apprezzare la lucidità con cui affrontava il problema e non ritenevo possibile che avesse collaborato ad un film disonesto, almeno nelle intenzioni. Forse Amore tossico poi non era così banale, ma rimanevo ancora dell’idea non potesse essere un bel film. Questo ancora presuntuosamente pensavo mentre appoggiavo il DVD sul piatto del lettore. E mi sbagliavo ancora. Oggi, dopo 35 anni, penso che Amore tossico sia un documento straordinario, l’unica opera cinematografica sul boom italiano dell’eroina negli anni Ottanta. Un film onesto, anche sul piano artistico, girato con la stessa tecnica essenziale che utilizzava Pasolini e che, come il Maestro, utilizza attori presi dalla strada che interpretano se stessi. Il risultato è quello di un realismo crudo, esasperato.

Amore tossico, scena del film

Il film è girato soprattutto nelle periferie di Ostia e di Roma (riprese così come sono, senza alcun intervento sulla scenografia) e racconta le giornate di un gruppo di tossicodipendenti prima che venissero istituiti i servizi pubblici: la ricerca dei soldi, lo sbattimento, la prostituzione, gli scippi, le rapine, lo spaccio, i comportamenti a rischio ed anche l’overdose. In Amore tossico c’è tutto questo e soprattutto questo. Nessun tentativo maldestro di rappresentare le motivazioni profonde della dipendenza, nessuno spazio alle famiglie dei protagonisti, che non compaiono mai, nessuna indulgenza e nessuna glorificazione. Nessun rischio di potersi identificare con qualcuno dei personaggi, tutti tossici senza famiglia e senza passato.

Amore tossico è un film con un finale che non lascia speranze. Del resto, da lì a poco sarebbe stato disponibile il test per l’HIV che falcidierà quella generazione. Cesare Ferretti (Cesare) riuscì a disintossicarsi, ma morì di AIDS nel 1989. Patrizia Vicinelli, una poetessa che aveva fatto parte del Gruppo 63 e che nel film interpreta una pittrice, morirà anche lei di AIDS nel 1991.  Nel 1991 morirà anche Loredana Ferrara (Loredana). Michela Mioni (Michela), la protagonista femminile, fu arrestata pochi mesi dopo l’uscita del film, è l’unica ancora viva, assieme ad Enzo di Benedetto (Enzo). Tutti gli altri sono deceduti, l’ultimo Roberto Stani (Ciopper) è morto nel 2014 in Africa, a causa della malaria.

La collaborazione di Blumir e degli stessi protagonisti alla sceneggiatura è oltremodo evidente. Il film, in questo modo, riesce ad essere più che realistico, sostenuto in questo anche dal fatto che non era difficile per nessuno immedesimarsi nel ruolo, dato che ognuno recitava se stesso ed i personaggi avevano lo stesso profilo anche nella vita reale. Ne derivano alcune scene cult, in cui la quotidianità tossica, sconosciuta ai più, risulta rappresentata in modo plastico, quasi tridimensionale. Come quella in cui Michela viene ‘annacquata’ (termine gergale che sta ad indicare l’acquisto di una dose priva di eroina) ed esce infuriata dal bagno del bar ripetendo ad alta voce “Ma non esiste”, mentre si dirige fuori decisa a rintracciare l’annacquatore.

Non mancano le pere filmate in primo piano, anche sul collo. Pere vere, solo il contenuto della siringa era innocuo. Si possono osservare alcuni comportamenti a rischio, molto in voga in quegli anni ed in parte ancora adesso, che tanto hanno contribuito alla diffusione delle malattie infettive, come quello di passare la soluzione da siringa a siringa per dividere democraticamente la roba. Sono molti i ‘quadretti tossici’ che si susseguono, tutti possibili in quegli anni: la madre casalinga che collabora assieme alla nonna con il figlio spacciatore, la proposta di sesso in cambio di una dose (con busta maggiorata in caso di rapporto anale), lo scippo di una catenina d’oro, la rapina maldestra ed il tentativo di aggancio da parte di un pappone. C’è anche spazio per un ambulatorio per il trattamento con metadone, nel quale la transessuale “Er donno” si reca per assumere la terapia, dopo aver trascorso la notte al lavoro. La rappresentazione della terapia con metadone è alquanto sgangherata e questa è una delle poche sbavature del film, perdonabile se si considera quando il film è stato girato.

Amore tossico, scena

Sul piano cinematografico, Caligaris si dimostra un regista capace e con una solida formazione artistica, bene evidenziata dalle citazioni colte, come quella delle pupille a spillo ottenute puntando i fari negli occhi dei protagonisti, come già aveva fatto Otto Preminger ne L’uomo dal braccio d’oro. L’omaggio a Pasolini è costante, per tutto il film e diventa esplicito e dichiarato alla fine, con la scena della morte di Michela davanti al monumento eretto sulla spiaggia di Ostia, lì dove venne rinvenuto il corpo del regista-poeta.

Amore tossico, monumento a Pasolini

Un film da vedere? Sì, senza alcun dubbio. Senza attendersi alcun richiamo ai massimi sistemi e tenendo bene presente il periodo storico. Amore tossico non è un film sulle ragioni profonde della tossicodipendenza, così come non è un film sulle relazioni amorose fra tossici ed il titolo, forse, è la parte meno riuscita dell’opera. E’ però un film che racconta benissimo la vita dei tossicodipendenti in quegli anni, quando c’era tanta eroina e mancava la cura. Per queste ragioni è anche un film datato, che però costituisce anche un monito su come potrebbe tornare ad essere se rinunciassimo al nostro sistema di cura.

 

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