Tre recenti review sulla cannabis

Cannabis sativa, pianta giovane. Foto di Adrian Meyer, da Wikimedia

Cannabis sativa, pianta giovane. Foto di Adrian Meyer, da Wikimedia

Il dibattito sulla regolamentazione dell’uso della cannabis in Italia è politico, ed è giusto che sia così, perché la società deve avere modo di decidere liberamente sulla legittimità  di comportamenti  che possono avere un’ampia e complessa gamma di effetti diretti e indiretti. Certo, c’è da augurarsi che gli elementi su cui si basa questo dibattito siano il più possibile obiettivi, ed i fini non siano soltanto di lotta tra classi dirigenti ma di maggior beneficio per i cittadini.

Ecco perché qui sul blog della Società Italiana Tossicodipendenze siamo interessati agli elementi di realtà che nutrono il dibattito – fermo restando che per sua natura la scienza è perfettibile perché falsificabile, se no non è scienza, e che, come insegnava Ippocrate, padre fondatore della medicina:

Ippocrate di Cos

“la vita è breve, l’arte è lunga, l’occasione è fugace, l’esperienza è fallace, il giudizio è difficile”

“esistono soltanto due cose: scienza ed opinione; la prima genera conoscenza, la seconda ignoranza”.

Armati di queste consolazioni classiche, affrontiamo dunque i più recenti rapporti ufficiali a livello internazionale: infatti, nel corso del 38° incontro degli esperti in tossicodipendenze dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, tenutosi a metà novembre a Ginevra, sono stati discussi, tra l’altro, gli effetti positivi e negativi della cannabis e dei suoi derivati.

Sala riunioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità

E infatti la pagina dedicata sul sito dell’OMS (destinata a cambiare di indirizzo una volta che le conclusioni della riunione verranno pubblicate), oltre a tutta una serie di rapporti su nuove sostanze psicoattive, riporta due review di grande interesse.

La prima è sull’efficacia e sulla sicurezza di cannabis e derivati in alcune indicazioni terapeutiche nei soggetti sclerosi multipla, dolore neuropatico, demenza, sindrome di Gilles de la Tourette, infezione da HIV ed AIDS, e chemioterapia antitumorale.
La review è del gruppo italiano del Dipartimento di Epidemiologia della regione Lazio, e questo dovrebbe darci un briciolo in più di orgoglio per il valore della ricerca italiana in ambito epidemiologico, che da molti anni è ottimamente quotata.

Systematic reviews on therapeutic efficacy and safety of Cannabis

Gli Autori hanno preso in considerazione 43 studi clinici, con 4586 partecipanti in totale, pubblicati tra il 1975 ed il 2015, per la maggior parte in Europa, dei quali quasi metà ritenuti a basso rischio di errore sistematico.

Il campo dove i risultati sembravano più interessanti era quello della sclerosi multipla, in particolare in riferimento al trattamento della spasticità, dell’insonnia e della sintomatologia dolorosa.

Per la spasticità, e come vedremo più avanti anche per altri sintomi, si è riscontrata un’incongruenza negli effetti della cannabis tra la valutazione soggettiva del paziente e quella esterna dell’operatore sanitario.
Infatti, gli studi che usavano la scala di Ashworth, il cui punteggio è assegnato dall’operatore sanitario sulla base della resistenza ai movimenti passivi (5 pubblicazioni, dal 2003 al 2014, totale 1216 soggetti) non trovavano la cannabis diversa dal placebo. Quelli, invece, che usavano una scala numerica NRS, basata su un punteggio soggettivamente assegnato dal paziente (3 pubblicazioni, dal 2007 al 2013, 860 soggetti) indicavano un beneficio dalla cannabis e alcuni suoi estratti. I risultati erano ritenuti altamente affidabili (evidenze di alta qualità).

La cannabis sembrava avere poi un effetto – per quanto non significativo – di peggioramento della qualità del sonno riportata dai pazienti. Sul dolore, sempre nella sclerosi multipla, gli studi mostravano un effetto favorevole, per quanto con un’eterogeneità tale da impedirne l’accorpamento nella metanalisi.

Nel dolore cronico la cannabis era significativamente più attiva del placebo sull’intensità del dolore, e sulla disabilità associata se valutata a bracci paralleli ma non in crossover; inoltre mostrava una tendenza favorevole che non raggiungeva la significatività sui livelli minimi riportati di dolore. I risultati non erano considerati comunque conclusivi (evidenze di bassa qualità).

In riferimento in particolare al dolore neuropatico, si vedeva un effetto della cannabis negli studi crossover ma non in quelli a bracci paralleli, con un grado medio di attendibilità.

Uno degli studi, eterogeneo rispetto agli altri e quindi non accorpato in metanalisi, mostrava effetti positivi della cannabis quando la valutazione era soggettiva e in capo al paziente (sul dolore a riposo e in attività), mentre quando si utilizzava un questionario strutturato eterosomministrato l’effetto non era significativo.

Il terzo ambito studiato era quello dei tic e delle compulsioni nella sindrome di Gilles de la Tourette e nelle demenze. Gli studi, solo due, non erano comparabili, ed anche qui in uno dei due si osservava una differenza tra le scale dei autovalutazione e quelle eterosomministate, con vantaggio per la misura soggettiva. Si trattava in ogni caso di un numero esiguo di soggetti, il che lascia aperta la questione della validità dell’intervento.

Il quarto ambito di indagine era l’effetto su nausea e vomito in corso di chemioterapia antitumorale. I risultati non erano conclusivi (evidenze di qualità bassa) ed gli studi si dividevano tra quelli con effetti positivi e quelli dove la cannabis si comportava ugualmente o peggio dei farmaci di confronto (generalmente metoclopramide i procloperazina).

Infine il gruppo di epidemiologi ha anche cercato di stabilire gli effetti di cannabis e derivati su mortalità e morbidità di soggetti con infezione da HIV o AIDS, ma tutti gli studi consultati non reggevano ai criteri di inclusione, in buona parte perché venivano utilizzati cannabinoidi sintetici (dronabinolo cioè THC sintetico) e non naturali.

Gli effetti avversi della cannabis rispetto al placebo mostravano qualche differenza tra studi a bracci paralleli e studi crossover, e comunque i principali erano vertigini, sonnolenza, nausea, disturbi gastroenterici, secchezza delle fauci, affaticamento, disorientamento, visione confusa, vertigini e disturbi psichiatrici in genere. Si trattava sempre di effetti di gravità bassa o moderata. Non vi erano differenze significative tra cannabis e placebo negli effetti più gravi.
È interessante che in merito al “feeling high” (si potrebbe tradurre “sentirsi fatti”) la cannabis aveva un effetto abbastanza evidente negli studi crossover, ma non significativo negli studi a bracci paralleli. Eventuali fenomeni di abuso o dipendenza non erano presi in considerazione da nessuno degli studi.

(Come considerazione personale, ritengo molto interessante l’incongruenza, più volte sopra riportata, tra esiti soggettivi ed esiti obiettivi del trattamento. I pazienti in pratica dicono di stare meglio, anche se per il clinico dall’esterno gli effetti di trattamento e placebo non differiscono. Mi sembra lecito chiedersi pertanto quale proporzione degli effetti possa derivare da un sollievo sintomatico correlato agli effetti della cannabis sul benessere psichico. Questo non per banalizzarne l’attività clinica, ma per meglio orientarla, eventualmente, anche verso altre patologie dove l’adattamento ai sintomi è importante per migliorare la qualità della vita).


La seconda review presentata dall’OMS affronta il rischio di abuso e dipendenza da cannabis e dal suo estratto standardizzato nabiximolo (noto con il nome commerciale di Sativex, e contenente tetraidrocannabinolo e cannabidiolo in quantità circa uguali), ed è redatta dal docente di farmacologia australiano prof. Jason White.

Abuse and dependence potential of Cannabis sativa and nabiximols

La review copre sia gli studi sugli animali che quelli sull’uomo – nulla che non sia già conosciuto, ma è utile ritrovare il materiale scientifico riassunto e con i riferimenti originali.

In sintesi, l’Autore riporta per gli animali che la cannabis è discriminabile per la sua azione recettoriale, aumenta il rilascio di dopamina nella shell del nucleus accumbens, ha una serie di effetti ricollegati alla gratificazione (riduzione della soglia per l’autostimolazione intracerebrale, autosomministrazione ed induzione di  preferenza spaziale condizionata); inoltre alla sospensione induce una sindrome astinenziale aversiva con alterazioni comportamentali. Però, questi effetti risultano ridotti rispetto ad altre droghe come eroina e cocaina.

Per l’uomo vengono in parallelo citati gli studi che indicano discriminabilità, effetti gratificanti e tenedenza all’autosomministrazione – per quanto l’Autore riporti come questi ultimi effetti vengano principalmente trovati nella popolazione che fa uso volontario deiia sostanza, mentre in una popolazione non selezionata è verosimile che si riscontri anche una quota di soggetti che non ne traggono effetti gratificanti. Gli studi epidemiologici testimoniano la presenza di abuso e dipendenza, quest’ultima meno frequente, come negli animali da esperimento, rispetto a quella indotta da altre sostanze psicoattive illegali. La sindrome astinenziale somatica, per quanto venga riscontrata, è certamente meno intensa e grave di quella indotta da oppioidi ed alcol.

Per quel che concerne il nabiximolo, viene spiegato come il cannabidiolo, che vi è contenuto in rapporto 1:1 con il tetraidrocannabinolo, non sia di per sé gratificante nei test animali, non venga discriminato come tetraidrocannabinolo, né ne alteri le proprietà discriminative.

Nei test sull’uomo il nabiximolo a basse dosi non ha effetto gratificante in confronto al placebo, mentre innalzando le dosi comparirebbe un effetto gratificante, per quanto inferiore a quello di analoghe dosi di dronabinolo (cioè tetraidrocannabinolo sintetico puro). Ad oggi, viene riferito che non vi sono rapporti di abuso di nabiximolo, per quanto si osservino effetti euforizzanti ad alte dosi. Con l’uso cronico, è riportata tolleranza con riduzione degli effetti psicoattivi. Inoltre, anche la sindrome astinenziale alla sospensione appare lieve.

(anche qui, come considerazione personale, mi chiedo perché la maggioranza degli studi clinici ed epidemiologici si riferisca alla cannabis in generale e non cerchi di dettagliare meglio i ceppi utilizzati in rapporto alla loro variabile composizione percentuale di principi attivi naturali. Se è vero che un estratto standardizzato come il nabiximolo si comporta in maniera parzialmente diversa dalla cannabis “selvaggia”, altrettante differenze ci devono essere tra i vari ceppi in commercio, dalla composizione in principi attivi grandemente diversa tra l’uno e l’altro. Ciò è ben noto negli Stati dove l’uso di cannabis medica o ricreativa è regolamentato, ma la scienza “mainstream” ancora non lo ha recepito, a parte una serie di lavori inglesi dove la differenza è genericamente tra “skunk” ed “hash” (secondo una stima sul titolo del tetraidrocannabinolo), e che utilizzano in maniera impropria il termine skunk che è riferito ad una ben precisa varietà della pianta.)


La terza review, molto interessante, per qualche motivo non è stata inserita nella pagina pubblicata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, per quanto sia stata preparata proprio per l’occasione. È stata redatta da Drugscience, il comitato scientifico indipendente fondato e partecipato dal professor David Nutt, rispettato ma politicamente controverso farmacologo inglese, con lo scopo dichiarato di assistere l’organizzazione internazionale nell’eventuale decisione di riclassificazione di questa pianta e dei suoi derivati. Probabilmente il professor Nutt dopo alcuni passati scontri con il governo britannico viene evitato dalle organizzazioni internazionali, in cerca di delicati equilibri in cui la scienza è solo un componente (probabilmente neppure il principale).

Cannabis and Cannabis Resin Pre-Review Report

Cononostante la review di Drugscience è la più completa delle tre, spaziando tra botanica e coltivazione, chimica, produzione di derivati illeciti, farmacologia generale, tossicologia sperimentale, tossicologia clinica nell’uomo, dipendenza, impieghi terapeutici, prodotti farmaceutici, epidemiologia dell’uso voluttuario e della dipendenza, implicazioni di salute pubblica, produzione e commercio legali e illegali, legislazione, e finanche possibili problemi di contaminazione e di controllo qualità.

Non è possibile riassumere come con le due precedenti review i contenuti, perché troppo ampi e articolati.

Sarebbe bello invece che qualcuno si prendesse l’impegno di tradurla in italiano, come base per il dibattito sulla regolamentazione che inevitabilmente riprenderà nel nostro Paese, lasciando la solita poco gradevole scia di polemica politica (con eterogenesi dei fini) e bufale antiscientifiche gonfiate e brandite da tutte le parti in causa.

Chissà se qualcuno dei clinici o dei ricercatori italiani che leggono Dedizioni, o qualcuni dei redattori (ce n’è di molto esperti nel campo) avrà la buona volontà, il tempo e la pazienza di farlo.

 

 

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