L’EPIDEMIA DI OVERDOSE DA DROGHE IN NORD AMERICA: FACILE DA OSSERVARE E DIFFICILE DA SPIEGARE (di Paolo Nencini)

A distanza di quasi tre decenni dal suo insorgere, ci si interroga ancora sulle cause della vera e propria epidemia di abuso di medicinali a base di oppiacei che ha colpito Stati Uniti e Canada, provocandovi decina di migliaia di morti. Comprensibilmente, l’attenzione si è focalizzata sulle industrie farmaceutiche, immediate beneficiarie dell’esplosione di consumo di tali farmaci, e molto è stato scritto sulle tecniche di marketing che hanno permesso di soddisfare l’avidità dei fratelli Sackler, gli psichiatri proprietari della Purdue Pharma, divenuti miliardari con i proventi della vendita di OxyContin, formulazione di ossicodone a lunga durata d’azione. A titolo d’esempio, si veda L’impero del dolore del giornalista investigativo Patrick R. Keefe, appena apparso nella traduzione italiana (Mondadori, 2022).

Limitare le responsabilità alla fame insaziabile di profitti dei produttori sarebbe tuttavia riduttivo lasciando inevasa la domanda di come sia stato possibile che, quasi all’improvviso, si sia permesso il marketing aggressivo di un farmaco temibile quale l’Oxycontin, quasi fosse una merce qualsiasi. A questa domanda cerca di dare risposta David Herzberg, giovane e brillante storico americano, con il suo White Market Drugs. Big Pharma and the Hidden History of Addiction in America (The University of Chicago Press, 2020). Il libro, scorrevole e fondato su un imponente apparato bibliografico ed archivistico, contestualizza la questione descrivendo un secolo di contrapposizione tra il mercato legale (il white market) e quello illegale (che chiama unconventional market) degli stupefacenti, specchio a sua volta della separazione normativa e sociale tra medicinali e droghe. Se l’uso di quest’ultime, in quanto attribuito ai segmenti di popolazione razzialmente ed economicamente emarginati, è stato infatti interdetto da un regime intransigentemente repressivo, la regolazione di quello dei medicinali, di cui nel sistema sanitario americano hanno a lungo beneficiato quasi esclusivamente i bianchi benestanti, è stato demandato in larghissima misura agli ordini professionali dei medici e dei farmacisti in una cornice di legislazioni statali e federali molto liberali. Di qui, da un lato, lo strapotere del Federal Bureau of Narcotics (FBN) che aveva competenza, anche di polizia, su quegli oppiacei che erano ritenuti più potenti della codeina e dall’altro, la debolezza della Food and Drug Administration (FDA) a cui spettava la supervisione su tutto il resto, compresi gli ipnotico-sedativi e gli psicostimolanti che tanto innocui non erano sicuramente. Ne conseguì che l’uso di quest’ultimi psicofarmaci dilagò creando seri problemi non solo di dipendenza ma anche di medicina d’urgenza, mentre, attraverso la collaborazione di un comitato scientifico che definì i criteri di sicurezza necessari per l’introduzione di nuovi oppiacei, fu possibile arginarne la diffusione, con l’ossicodone tra i primi a farne le spese.
Herzberg nota come questo stato di cose abbia subito una profonda mutazione quando, negli anni sessanta, prese piede la nozione che la prescrizione medica e la gestione del farmaco da parte del farmacista non fossero più sufficienti a garantire la protezione del consumatore-paziente e fosse necessario un più deciso intervento di organi regolatori sul white market che impedisse un consumo non necessario di medicinali. Questi interventi, oltre a limitare fortemente l’uso terapeutico degli oppiacei, certificarono l’atto di morte per innumerevoli sedativo-ipnotici e psicostimolanti che non trovarono più impieghi terapeutici che ne giustificassero l’uso. Ironia della storia questi interventi a così forte impronta dirigista presero forma nel corso della presidenza repubblicana di Richard Nixon che per ideologia avrebbe dovuto garantire la massima libertà d’azione a produttori e ordini professionali.
In meno di un decennio questa libertà d’azione fu restituita da un’altra amministrazione repubblicana, quella di Ronald Reagan, che, ricorda Herzberg, già nel 1968 aveva dichiarato che l’FDA era parte dell’incubo normativo che si stava dispiegando a Washington. Quando divenne presidente, Reagan era quindi pronto a dare ascolto a quanti si indignavano per gli impacci burocratici che ostacolavano l’approvazione di farmaci innovativi ritenuti, da una stampa compiacente, capaci di salvare la vita ad un numero iperbolico di pazienti, fino a chiedersi addirittura se era davvero necessaria l’esistenza dell’FDA. Questa campagna fece un largo uso strumentale dell’accresciuta attenzione verso la sintomatologia dolorosa che si andava diffondendo dalla clinica all’opinione pubblica, fino a denunciare le misure atte ad impedire l’uso improprio degli analgesici oppiacei come il frutto di una sorta di “oppiofobia” e a sollecitare l’uso di questi farmaci anche nel dolore non neoplastico. Fu in questo contesto che nel 1995 l’Oxycontin ottenne l’autorizzazione all’uso anche nel trattamento a lungo termine in questo tipo di dolore. Ne conseguì che, come ricorda Herzberg, nel 2001 le morti da overdose da Oxycontin erano aumentate del 400% e gl’ingressi in pronto soccorso del mille per cento.

Tuttavia nemmeno l’aggiungere la deregolamentazione alla avidità dell’industria farmaceutica è sufficiente a spiegare compiutamente il fenomeno dell’epidemia di overdose da oppiacei di prescrizione che ha colpito con tanta durezza il Nord America. Esso è infatti parte di un fenomeno più generale, come ha evidenziato uno studio che ha esaminato le ben 599,255 morti per overdose da sostanze psicotrope avvenute negli Stati Uniti tra il 1979 e il 2016 (Jalal, H. et al. Changing dynamics of the drug overdose epidemic in the United States from 1979 through 2016. Science, 2018; 361: 6408). La scoperta davvero sorprendente è stata che nel corso dei 38 anni presi in considerazione il numero delle morti è cresciuto in maniera esponenziale con una regolarità impressionante (R2: 0.99; incremento annuo del 9%), e come risultante di multiple e distinte sub-epidemie di differenti sostanze -oppiacei da prescrizione, eroina, metadone, oppiacei sintetici (fentanyl), cocaina e metanfetamina- ognuna delle quali con le sue specifiche caratteristiche demografiche e geografiche.
Su questo studio e su quelli successivi che mostrano come l’andamento esponenziale della curva sia ancora presente nel 2020, anno in cui i morti per overdose sono ammontati a oltre 80mila, si è aperto un ampio dibattito per individuare le cause di un andamento così spaventosamente regolare. Ne è testimone, per fare solo un esempio, la serie di articoli recentemente pubblicati dall’International Journal of Drug Policy (Special Section: What are the Implications of the steady 40 year rise in US Fatal Overdoses? 2022; 104). La spiegazione maggiormente accreditata prende le mosse dalla locuzione “deaths of despair”, morti per disperazione, attribuita non solo alle morti per overdose, ma anche a quelle per alcolismo e per suicidio, nel loro insieme capaci di ridurre significativamente l’attesa di vita negli Stati Uniti. Secondo gli studiosi, un contributo importante a questa epidemia di disperazione è fornito dalla insicurezza economica e dalla diffusa mancanza di opportunità lavorative. Una spiegazione che diviene intuitivamente assai convincente alla luce delle parole e delle immagini di Dignity. Seeking Respect in Back Row America di Chris Arnade (2019), che mostra come il consumo di droghe sia distruttivamente connesso al degrado socio-economico dell’esistenza di molti tra gli abitanti della rust belt, l’ampia fascia d’America dove, in un rapido e devastante processo di deindustrializzazione, la ruggine ha sostituito i grandi complessi industriali.
Resta tuttavia una spiegazione parziale e certo insoddisfacente per gli epidemiologi poiché non sono chiari i meccanismi di feedback positivo che stanno esponenzialmente traducendo la disperazione in overdose lungo un periodo di oltre quattro decenni. Ovviamente, conoscere quali siano questi meccanismi potrebbe essere assai utile per predisporre interventi atti ad arginare una epidemia di dimensioni così devastanti. Sfortunatamente, come ricordano gli studiosi che per primi hanno evidenziato il fenomeno (Burke DS, Jalal H. Reply commentary by Jalal and Burke. Int J Drug Policy. 2022 Jun;104:103674), l’agenda della ricerca ha sino ad ora trascurato gli studi quantitativi di sistema in grado di fornire informazioni sulle dinamiche sociali e di popolazione dell’epidemia di overdose, privilegiando gli studi basati sul modello medico: molecolari, di sviluppo di farmaci e di trial clinici. È evidente che è arrivato il momento di un ripensamento nella formulazione delle priorità e nel pianificare gli studi quantitativi di sistema sarà forse utile che i ricercatori d’oltre oceano considerino la comparazione con quei paesi come il nostro dove, per fortuna, non c’è traccia della crescita esponenziale di overdose da droghe. Da noi c’è forse meno disperazione perché la protezione sociale funziona meglio? Oppure ci sono meno overdose perché vi è una più estesa ed efficiente assistenza sociosanitaria ai soggetti dipendenti?

Paolo Nencini
(paolo.nencini@unitelma.it)

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