L’overdose e quel maledetto trittico di paura, vergogna e solitudine

Nell’occasione della giornata contro l’overdose, riceviamo questo appassionato contributo di Alessio Guidotti, operatore della riduzione del danno e attivista ITANPUD APS, e volentieri lo pubblichiamo, aperto alla discussione.

 

 

Guardi i dati disponibili sull’overdose, quelli di Geoverdose dettagliati e precisi sulla morte per overdose e non riesci a capirne molto. Cioè torna sempre che dei punti saldi ci sono, e sono sempre gli stessi: non farsi da soli, avere il narcan, usare quelle precauzioni di base con i mezzi a disposizione (ad esempio iniettarsi la sostanza un po’ per volta quando non si conosce). Poi però abbiamo le trappole dell’abitudine: quando la prendi dallo stesso pusher, già dopo qualche mese sei ultra sicuro, capisci in quale situazione sei bene o male. Poi però si continua a morire. E non ti spieghi alcune cose come possano succedere. Se poi aggiungi alle overdose classiche le overdose in senso più ampio, emerge che la costante è sempre un misto di paura, ignoranza, solitudine.

Prese una per una, le situazioni più recenti in ordine cronologico sulle quali ho potuto leggere qualcosa sono situazioni in cui torna sempre in qualche modo, questo trittico: paura, ignoranza, solitudine. Considerando lo stigma che ancora maledettamente circonda l’uso di alcune droghe, soprattutto quelle più “pericolose”, non è sbagliato, a mio avviso, pensare che una lotta per il contrasto alle overdose non possa che riguardare qualcosa di più ampio che informare, distribuire naloxone (valido solo per le overdose classiche da oppiacei/oppioidi tra l’altro). Senza nulla togliere alla straordinaria importanza delle azioni specifiche di informazione sulle overdose, la distribuzione senza vincoli eccessivi del naloxone riconoscendo il fatto che è un farmaco salvavita senza obbligo di prescrizione, le varie campagne di sensibilizzazione, o ancora la precisa modalità di intervento per accertare e contrastare un overdose: tutto questo sembra diventare inefficace di fronte alcune situazioni, come se tutte queste modalità di riduzione dei rischi, di informazione, non bastassero, non fossero sufficienti. Perché soprattutto davanti la solitudine dobbiamo sempre fare di più e continuamente. L’overdose rimanda sempre a una situazione di solitudine. Solitudine perché nessuno è li che può aiutarti e se c’è e scappa, per paura e ti lascia solo: sempre di solitudine si parla. Una solitudine brutta, ma brutta veramente, perché pensare che qualcuno ti lascia morire è il massimo della solitudine, pensare che qualcuno ti lascia morire fa pensare a tante cose, ma su tutte è qualcosa che sa di solitudine. La paura poi, ho immaginato ad esempio la paura dominare la scena della morte di Francesca Manfredi. Questo gruppo di ragazzi che mette in piedi una situazione a cui nessuno di noi è stato estraneo, perlomeno a qualcosa di simile, soprattutto a quella età. La paura poi in certe situazioni è una paura irrazionale, è proprio la paura generica e stupida che circonda il proibito, il vietato, non solo dalla legge… Insomma se penso al confine culturale che separa lo sballo dalla lucidità, l’alterazione della propria percezione della realtà, la vedo come la prima causa di isolamento che porta al rischio overdose. Non l’unica sia chiaro. Ma ve lo immaginate lo scenario in cui la vita di Francesca trova la sua fine? Una totale, irrazionale, fottutissima paura che domina sovrana e porta i protagonisti, i compagni di Francesca, a preferire il rischio del peggio, cioè una morte con tutti gli annessi e connessi, piuttosto che il rischio di far finire male una serata nata con tutt’altre intenzioni. Sia chiaro, tranne i casi estremi, un gruppo di amici non si riunisce e decide di assumere droghe con l’intento di morire o stare male. Ignoranza e incoscienza possono fare da padroni e ribaltare gli intenti, ma in situazioni come quella di Francesca Manfredi non si può che pensare a quanto sarebbe bastato un attimo, fermarsi e agire prima di superare il limite in cui tutto degenera. Nello specifico caso sembra che addirittura l’ipotesi di chiamare l’ambulanza sia stata, da almeno una dei presenti, presa in considerazione. Eppure è finita come sappiamo, o per chi non lo sapesse, Francesca viene messa morta o agonizzante in una vasca con ghiaccio e li viene trovata. Morta.

Ogni storia dice qualcosa. Qualche tempo fa si provò a fare qualche campagna di sensibilizzazione per avere anche da noi una legge del Buon Samaritano. L’idea che se chiami i soccorsi sei in qualche modo tutelato dall’avere conseguenze legali, forse aiuterebbe. Ci vorrebbero anni per togliere solo questa di paura, ma sarebbe certo un incentivo contro la paura delle conseguenze penali. Dobbiamo prendere atto che nell’ambito dei consumi ci sono contesti marginali, ma in modo differente dalla marginalità classica. C’è tanto un isolamento, persone che si sigillano nelle loro abitudini. C’è chi si fa da anni e non sa cosa è il naloxone. Davvero. La staticità di alcune situazioni fa pensare alla routine con cui alcune dinamiche si ripetono. Maledettamente situazioni che si ripetono. Ogni overdose sembra la conferma di qualcosa che non si riesce a cambiare. Credo che sia questo che deve orientarci : come consumatori, come operatori, come attivisti, come chi ha interesse perché una vita non finisca mentre cercava un modo per stare diversamente da come stava, fosse poi per alterarsi, per sedare un dolore, per qualche a noi sconosciuto motivo, questo non possiamo saperlo e in fondo non ci deve importare. L’importante è agire in modo efficace ed efficiente perché il pericolo del superamento di un limite, perché quello è l’overdose, il superamento di un limite, non sia letale, sia il più possibile un momento riconoscibile ed evitabile nella sua estrema conseguenza. Prima del naloxone, prima della posizione di emergenza facciamo informazione su dosaggi, forme di cautela da adottare tra consumatori: sai cosa ti stai facendo? Conosci il pusher? Sei solito chiedergli se la roba che stai prendendo è sempre la solita che conosci? E poi il naloxone, gli operatori devono avere ben chiaro che possono somministrarlo, lasciando perdere la storia del farmaco per via iniettiva che deve farlo il medico, se ci fermiamo a questo abbiamo finito, è un farmaco salvavita, se hai un’overdose davanti gli occhi non puoi nasconderti dietro a nulla: devi somministrare il Narcan, sia tu uno psicologo, un educatore, un pari, un medico. Se sei un professionista, certamente, devi saperlo somministrare ed attivare immediatamente e nel giusto modo i soccorsi. Devi sapere la modalità, che può essere non necessariamente endovena. E poi pensando all’overdose in generale, dovremmo saper comunicare che non è solo l’overdose da oppiacei a poter essere fatale. Dovremmo soprattutto insistere perché sia sempre più diffusa una cultura del limite e consapevolezza del limite, quando si parla di sostanze e del loro utilizzo, e soprattutto il training tra pari e la possibilità per le PUD di far circolare le proprie competenze. Altro aspetto fondamentale è quello del drug checking: adoperarsi perché diventi pratica comune, dalle forme di controllo con le strisce per il fentanil fino al drug checking con le più moderne tecnologie ed anche il colorimetrico. Drug checking da fare sul posto, ma anche una sana cultura di analisi laboratoriali, invii campioni, insomma una cultura di conoscenza e controllo di quello che da un mercato illegale e incontrollato finisce nel nostro corpo.

Certamente tutto questo non è sufficiente, la vera battaglia più grande all’overdose è quella che vede il superamento della condizione di solitudine relativa al proprio consumo: fino a quando, per qualunque consumo, si sentirà il bisogno di nascondersi e vergognarsi, aver paura, allora le over saranno sempre in agguato. Purtroppo, le stragi fanno rumore, mentre se i morti non raggiungono un numero eclatante le cose non destano allarme. Il fatto che in Italia le morti per overdose non subiscono un’impennata considerevole, sembra quasi un motivo per dare meno significato e valore alle morti che si verificano. Si muore ancora di eroina invece, ed ogni morte, ed ogni singola morte dovrebbe essere considerata come una sconfitta, la sconfitta di un sistema che ancora ha delle fragilità enormi, la prima forse quella di non riuscire a superare quel senso di paura, solitudine, vergogna, che porta a nascondersi, non chiedere aiuto, isolarsi. Un sistema che non è determinato solo dai servizi della bassa soglia e dall’alta soglia, ma dalla società tutta. Certo ognuno un pezzo in più potrebbe farlo: dovremmo forse ragionare su quanto in alcune Regioni si difficile l’interazione tra alta e bassa soglia, io stesso ho vissuto in un SERD ( che potrebbe essere in qualunque regione italiana, considerata l’autonomia di ogni unità operativa) l’ostruzionismo di medici e responsabile nell’appendere un poster sull’overdose proprio in occasione della giornata del 31 Agosto. Un poster con il logo della giornata internazionale , una frase che richiama alla attenzione che sempre ( non solo il 31 Agosto) dovremmo prestare a questo pericolo. Ebbene alla fine mi fu negato il permesso di appenderlo, e tra le varie scuse, prima di arrivare all’imbarazzante “no” ci fu quella che il solo ricordare l’overdose, potrebbe “rievocare in alcuni pazienti il desiderio di farsi”: pensiero molto simile a quello che vede nella distribuzione libera del naloxone un incentivo a non fare attenzione. Che dire? Forse che non sia anche questo invece un modo per alimentare la paura, la vergogna e la solitudine? Ecco forse oggi, nella giornata internazionale di consapevolezza sull’overdose, sono anche queste le cose su cui, proprio di quella consapevolezza, dovremmo averne un po di più.

 

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