Le psicosi associate al consumo di cannabis. Parte ottava: un modello concettuale

L’altra faccia degli studi clinici ed epidemiologici sull’associazione tra cannabis e disturbi psicotici è quella dei possibili meccanismi farmacologici implicati, insomma cosa succede dentro la testa quando i principi attivi della canapa raggiungono i nostri neuroni.

La Letteratura scientifica presenta alcune certezze, molte teorie e svariate ipotesi in merito, e mettendo assieme queste letture mi viene fuori un modello di quel che succede, che tenterò di riportare.

Un modello per definizione non è la realtà, ma un giocattolo che serve a farsene un’idea; per definizione, quindi, ogni modello è “sbagliato” e questo non farà eccezione. Mi scuso in anticipo con i cultori della materia, che invito a correggermi, e nel contempo spero di essere utile a chi vorrebbe iniziare ad interessarsi al lato farmacologico del problema.

Una cosa che sappiamo per certo è che il principio attivo più importante della cannabis, che è il delta 9-tetraidrocannabinolo (d’ora in avanti THC) deve la maggior parte della sua psicoattività al fatto che influenza un importantissimo sistema di regolazione della trasmissione di impulsi fra i neuroni. Questo sistema si chiama “endocannabinoide” cioè della cannabis interna, che sta dentro di noi, proprio perché lo si è scoperto cercando quale fosse il bersaglio nel cervello colpito dalla somministrazione degli estratti di cannabis.

Le basi di questa ricerca le dobbiamo a Raphael Mechoulam, professore di chimica medica in Israele.

 

Gli sviluppi in gran parte provengono dal lavoro di Vincenzo Di Marzo, direttore di ricerca presso l’Istituto di Chimica Biomolecolare del Consiglio Nazionale delle Ricerche (ICB-CNR) di Pozzuoli (nonché professore di farmacologia negli Stati Uniti), uno dei maggiori conoscitori al mondo del sistema endocannabinoide, a cui lui stesso ha dato il nome.

Una cosa interessante di questo sistema è che esso agisce come una sorta di regolatore di volume nel parlottare continuo che i neuroni fanno tra di loro, un limitatore che evita che i segnali diventino troppo forti.

Quando un neurone “parla” chimicamente ad un altro neurone (emettendo una o più sostanze nella stretta fessura che li separa chiamata sinapsi), il neurone che ascolta, ricevuto il segnale, rinvia indietro al primo neurone che gli parla altre sostanze, che ottiene dai grassi della sua membrana cellulare. Queste sostanze grasse (ad esempio la anandamide AEA ed il 2-acilglicerolo 2-AG) si spostano in maniera retrograda dal neurone che ascolta al neurone che parla, e – in maniera figurata – gli comunicano “ok, messaggio ricevuto, ora basta, zitto!”. In buona sostanza un limitatore di volume che impedisce che il primo neurone, quello che sta parlando, continui a farlo perché non è sicuro che il suo messaggio sia stato compreso.

da Bloomfield, M. A., Ashok, A. H., Volkow, N. D., & Howes, O. D. (2016). The effects of Δ9-tetrahydrocannabinol on the dopamine system. Nature, 539(7629), 369-377.

Questo sistema di controllo del volume è appunto il sistema endocannabinoide, le sostanze grasse usate per trasferire il segnale si chiamano collettivamente cannabinoidi endogeni o endocannabinoidi, ed il THC non fa altro che agire su questo sistema, o in altre parole dire indistintamente a tutti i neuroni del cervello “per favore smettetela di gridare, state un po’ zitti!”.

Guarda caso l’effetto del THC è graduato in maniera intermedia (farmacologicamente si dice che è un “agonista parziale”) cioè che fa un effetto intermedio, né troppo né poco. Gli agonisti parziali tendono ad essere farmaci discretamente tollerati dall’organismo proprio per questo loro stare in mezzo tra nessun effetto ed effetto massimo, ed in terapia se ne usano vari – tra i più noti nella medicina delle dipendenze la buprenorfina (il vantaggio di essere un agonista parziale è che molto difficilmente manda in overdose) e la vareniclina (nome commerciale Champix ®, usata nella terapia della dipendenza da nicotina) e in psichiatria l’aripiprazolo (nome commerciale Abilify ®, un antipsicotico che fa effetto ma diciamo senza eccedere troppo, minimizzando alcuni effetti non utili di altri farmaci più forti).

Altre sostanze che agiscono dall’esterno sul sistema endocannabinoide non sono così “gentili”: ad esempio molti dei cannabinoidi prodotti in laboratorio e venduti nel mercato illegale come sostituti della cannabis naturale sono farmaci “agonisti puri” che agiscono in maniera troppo forte sul sistema, e nel farlo possono provocare gravi alterazioni psicofisiche, a volte letali 1 2, mentre le sostanze che invece di stimolare il sistema lo bloccano (nella terminologia farmacologica “antagonisti”, ad esempio il rimonabant) pur avendo potenzialità terapeutiche hanno provocato alterazioni gravi del tono dell’umore e perfino casi di suicidio 3.

Il THC agisce in maniera meno drastica, e questo non è solo dovuto alle sue caratteristiche proprie, ma al fatto che in natura la canapa contiene oltre al THC altri principi attivi che ne limitano ulteriormente l’attività.

C’è molta ricerca in corso su questo argomento, ma il dato oramai certo è che un derivato semplice del THC che è presente, in quantità variabile, assieme ad esso, e che si chiama cannabidiolo (CBD) contribuisce a limitarne l’attività complessiva, seppure con un meccanismo d’azione in parte diverso da quello del THC. Più avanti pubblicheremo un articolo esplicativo anche sul CBD.

In complesso dunque, l’estratto attivo di cannabis manda alle cellule del cervello un segnale diffuso di ridurre la trasmissione dati, una specie di “bambini fate i bravi”. Ovviamente questo messaggio indiscriminato mandato a tutti attraverso la circolazione del sangue è molto diverso da quello specifico e mirato che il neurone che ascolta rimanda al neurone che parla.

Ci si potrebbe aspettare che tutto questo avesse un effetto uniformemente sedativo, e mandare il cervello a nanna, cioè far venire direttamente sonno e basta. Non è così come è evidente nella realtà, e c’è una spiegazione.

Il nostro cervello non è una macchina semplice con un interruttore acceso/spento. Su una macchina così semplice, la somministrazione di una sostanza che riduce il traffico di informazioni tra i neuroni avrebbe l’effetto di far passare il sistema da acceso a spento, e buonanotte (in tutti i sensi), come fanno gli anestetici che si usano nelle operazioni chirurgiche e fanno precipitare la persona nell’incoscienza, e se si sbaglia la dose fino alla morte.

Ma nel nostro cervello ci sono una enorme molteplicità di circuiti, alcuni che stimolano pensieri, movimenti e comportamenti, altri che li inibiscono, altri ancora che inibiscono quelli inibitori (ottenendo un effetto stimolante, meno per meno fa più).

In pratica, a meno di spegnere in maniera drastica tutti i neuroni, l’effetto netto di un farmaco moderatamente inibitore come il THC sarà variegato: alcuni circuiti saranno inibiti, altri stimolati (per inibizione dell’inibizione), e questo dipenderà dalle dosi (e quindi dalla composizione relativa nei vari principi attivi dell’estratto di cannabis utilizzato) e dalla sensibilità individuale, un dato importantissimo su cui torneremo più avanti.

Si capisce meglio questa situazione osservando l’effetto delle bevande alcoliche. L’alcol etilico, che è il loro principio psicoattivo, ha un potente effetto inibitorio sull’attività dei neuroni, di natura solo in parte conosciuta nei dettagli.

A dosi basse, diciamo per un astemio dopo un bicchierino o meno, l’effetto inibitorio prevale sui circuiti inibitori, ed il soggetto appare più stimolato che inibito: è brillo, rilassato, intraprendente, disinibito, ridacchia e a volte “ci prova”. Aumentando il numero di bicchieri, man mano l’effetto inibitorio si estende ad altri circuiti del cervello: dapprima l’euforia si spegne, viene la sbornia triste, poi può comparire un’aggressività impropria (le scazzottate degli ubriachi) legata al fatto che vengono inibite le aree del cervello che inibiscono i comportamenti più primitivi, più propri dell’animale provocato che dell’homo sapiens, condita da alterazioni del sensorio che fanno percepire provocazioni pure quando non ce ne sono, poi sopravviene il sonno, la perdita del controllo delle urine e delle feci, e poi – volendo proprio continuare – il coma e l’arresto cardiorespiratorio.

Gli effetti di altri sedativi forti farmaceutici possono essere simili, sia pure con qualche variazione qualitativa e quantitativa 4.

da hearcom.eu

Questa progressione da brillo a morto non si osserva con gli effetti inibitori dei cannabinoidi, con i quali nella maggioranza dei casi ci si ferma ai primi stadi, con un aumento del “rumore di fondo” del cervello, riscontrabile con l’elettroencefalografia 5 – che può indicare un’attività meno ordinata, più anarchica dei neuroni – a cui corrispondono effetti particolari, in parte indesiderati e patologici, tra i quali disturbi motori, cognitivi, in particolare della memoria, ed ansia, in parte ricercati dal consumatore, e cioè rilassamento, euforia ed alterazioni percettive (sensoriali e dello scorrere del tempo).

Le alterazioni percettive in particolare sono un punto importante, e possono fare la differenza tra un’esperienza gradita ed una scioccante, che può evolversi in una visita al pronto soccorso ed anche un ricovero in un reparto di psichiatria (e sull’appropriatezza di quest’ultima eventualità diremo in un articolo successivo).

Sono tanto importanti da presentare una specifica voce nel DSM5, e cioè “Intossicazione da cannabis, con alterazioni percettive” definite come “allucinazioni con esame di realtà integro o illusioni uditive, visive o tattili che si verificano in assenza di delirium”.

Interpretando in maniera libera le definizioni del DSM5, diciamo che fintantoché la persona intossicata è consapevole che quello che sta vivendo è uno stato distinto dalla realtà condivisa provocato dalla sostanza, confuta le percezioni alterate e non agisce in base ad esse, non siamo in presenza di un disturbo psicotico. che invece va diagnosticato “quando le allucinazioni si verificano in assenza di un esame di realtà integro”. Inoltre se si osserva disorientamento temporale o spaziale, alterazioni della coscienza o della capacità di dirigere l’attenzione e disturbi cognitivi, è appropriata la diagnosi di delirium, per quanto il DSM5 la giudichi controversa.

Quelli dell’intossicazione con alterazioni percettive sono effetti farmacologici della cannabis, non indici di una malattia mentale indipendente, ed hanno infatti una durata compatibile con la permanenza del THC nell’organismo: secondo il DSM5 “solitamente perdurano 3-4 ore, con una durata un po’ più lunga se la sostanza viene ingerita oralmente […] possono occasionalmente persistere o ripresentarsi per 12-24 ore a causa del lento rilascio delle sostanze psicoattive dal tessuto adiposo o dal circolo enteroepatico”.

Anche il disturbo psicotico per essere giudicato indotto da cannabis (come da altre sostanze) secondo il DSM5 deve manifestarsi durante o poco dopo la sua assunzione, non ci devono essere sintomi precedenti che facciano ritenere che fosse preesistente, non deve durare più della durata dell’intossicazione (per la cannabis generalmente un giorno, ma in certi casi anche qualche giorno), e quindi si configura come un effetto farmacologico, che insorge e declina in parallelo con la presenza del THC nell’organismo, e non è causa né necessaria né sufficiente di una patologia successiva perdurante come ad esempio la schizofrenia.

Inoltre, i disturbi neurocognitivi da cannabis (il delirium) secondo il DSM5 sono transitori e vanno in remissione astenendosi dal consumo, quindi legati all’effetto farmacologico del THC.

Come discusso negli articoli precedenti, non vi sono ad oggi prove di un rapporto causale tra uso di cannabis e disturbi psicotici cronici, perduranti oltre la permanenza dei principi attivi della sostanza nell’organismo, anche se nell’ambito del modello concettuale che riporto (e ripeto, con tutti i possibili anzi probabili errori connessi) è verosimile che l’uso di cannabis, con variazioni legate al ceppo e quindi ai principi attivi contenuti, alla frequenza d’uso, alle condizioni individuali ed al contesto, cioè set e setting 6, possa potenziare i sintomi di un disturbo psicotico preesistente (es. schizofrenia), eventualmente sottosoglia, o non ancora diagnosticato, e provocarne il primo esordio, la ricaduta o l’aggravamento.

Ovviamente questi distinguo valgono fintantoché ci si accosta con un approccio categoriale, ma se si segue un approccio di spettro 7 le frontiere tra patologie acute subacute e croniche, strutturali e funzionali, diventano più nebulose, con una serie di pro e contro sul versante della comprensione e sul versante pratico che non sta a me evidenziare e giudicare, e non qui.

Per restare ad approcci di spettro, nel mio modello concettuale, comunque, si può ipotizzare che l’intossicazione con alterazioni percettive e il disturbo psicotico non siano entità distinte e separate, ma facciano parte di un continuum, dove i primi aspetti, meno gravi, sono quelli dove l’intossicazione non intacca il nucleo di coscienza che mantiene una sufficiente consapevolezza della realtà, ed i secondi, più gravi e pervasivi, sono caratterizzati dalla perdita del funzionamento di questo nucleo che mantiene il contatto con la realtà, il ricordo della realtà, vuoi per l’intensità dello stimolo farmacologico, vuoi per una predisposizione che condiziona una maggiore vulnerabilità.

Da questo punto di vista, la ricerca potrebbe aver identificato alcuni elementi che possono spiegare, sia in termini farmacologici e genetici, sia in termini di sviluppo del sistema nervoso, questa possibile predisposizione.

In particolare, ignoranti come ancora siamo rispetto alla complessità del cervello, siamo andati a cercare le possibili chiavi della vulnerabilità nei meccanismi che già conosciamo essere compromessi nei soggetti che sviluppano altri disturbi di natura psicotica come la schizofrenia: un po’ come chi ha perso per strada il portafogli, e lo cerca solo dove c’è un lampione ad illuminare, perché tanto nel resto della strada c’è troppo buio per vederlo.

Nulla quindi garantisce che si stia seguendo la linea giusta e non ci siano altri fattori sconosciuti più importanti ma per il momento in ombra.

Dopo aver cercato e letto un po’ di ricerca scientifica su questo tema, che è complesso e sfuggente perché sta alla frontiera tra farmacologia, medicina delle dipendenze, biologia molecolare, psichiatria e genetica, sono riuscito a procurarmi (dopo qualche difficoltà) una buona e recente revisione narrativa sull’argomento, che cerca di riordinare i dati sulla predisposizione sia nell’associazione tra cannabis e psicosi, sia nel disturbo da uso di cannabis 8.

Le considerazioni di seguito, se non altrimenti referenziate, provengono da questo articolo che fa un quadro abbastanza recente e completo della ricerca su questo argomento, e riporta la relativa bibliografia originale.

Principali vie dopaminergiche da https://en.wikipedia.org/wiki/Dopamine

Ad oggi la maggior parte delle ricerche passa in qualche modo dal ruolo nel cervello della dopamina, poiché c’è una certa concordia nel dire che in qualche modo nella schizofrenia e nei sintomi psicotici “positivi” ad essa correlati (ad esempio nelle alterazioni percettive e dei contenuti del pensiero), sia coinvolto questo trasmettitore, in maniera diretta o indiretta; e perché i farmaci che ne limitano l’attività sono tra quelli che moderano i sintomi.

Per questo motivo, si è ipotizzato che alterazioni dei circuiti nervosi funzionanti a dopamina possano rientrare anche nella genesi dei sintomi dispercettivi o psicotici legati all’uso di cannabinoidi, e si è andati a cercare nella catena di eventi che, dalla liberazione della dopamina da parte del neurone che “parla”, continua con il legame della dopamina stessa ai suoi recettori, il suo distacco dai recettori, la sua eliminazione, la regolazione del numero e della sensibilità dei recettori che stanno sulla membrana del neurone che “ascolta”, e gli eventi che avvengono nel neurone che ascolta a seguito del contatto della dopamina col recettore.

Peraltro, è noto che la cannabis ha effetti complessi sul sistema dopaminergico, potenziandolo in certi casi 9 e ciò rende ancora più plausibile l’ipotesi di studio.

Ed in effetti se uno va a cercare un’associazione tra alcuni dei meccanismi coinvolti nella neurotrasmissione a dopamina e l’insorgenza di sintomi psicotici dopo uso di cannabinoidi, la trova, sia pure in maniera incostante, con studi che la confermano e studi che la confutano.

Un fattore ad esempio è l’attività dell’enzima COMT, la catecolo-O-metil-transferasi, che partecipa all’importante compito di eliminare la dopamina (ed altri neurotrasmettitori affini) una volta che abbia trasmesso il suo messaggio.

immagine tratta da https://www.gatewaypsychiatric.com/same-s-adenosyl-methionine/

Una sua variante molto diffusa nella popolazione, variante rs4680, ne condiziona l’attività; esiste una variante meno attiva, ed una variante più attiva, che quindi, eliminando la dopamina più velocemente, ne potrebbe rendere l’effetto di picco – quando presente – relativamente più intenso, proprio perché i neuroni per così dire avrebbero meno possibilità ad abituarcisi. La variante più attiva è associata in alcuni studi (non tutti) sia con la probabilità di esperire sintomi psicotici dopo uso di cannabis, sia con la probabilità di sviluppare un disturbo da uso di cannabis, sia con tratti temperamentali correlati in genere all’uso di sostanze (novelty seeking, labilità dell’attenzione).

Un’ulteriore complicazione deriverebbe dall’epigenetica, cioè ai fenomeni che modulano l’espressione del patrimonio genetico nel singolo ed eventualmente nella sua prole, con effetti supplementari della metilazione delle sequenze regolatorie del gene della COMT e dell’enzima prodotto. E in effetti gli eventi vitali più intensi hanno un effetto supplementare: infatti è stato dimostrato che l’aver sofferto abusi e traumi nell’infanzia potenzia ulteriormente l’associazione tra variante “veloce” della COMT ed i sintomi psicotici dopo cannabis.

tratto da Bibb, J. A. (2005). Decoding dopamine signaling. Cell, 122(2), 153-155. http://doi.org/10.1016/j.cell.2005.07.011

Il recettore della dopamina di tipo D2 è un altro possibile elemento di variabilità, e come ben noto è il bersaglio dei più classici tra i farmaci antipsicotici (ad esempio l’aloperidolo) che ne sono antagonisti.

Come tutte le proteine, il recettore D2 mostra delle varianti nel codice genetico che ne controlla la sintesi. Una di queste varianti, rs1076560, condiziona il rapporto relativo tra i recettori prodotti per il neurone che “ascolta” e per quello che “parla”, che sono differenti dal punto di vista strutturale. I recettori che si trovano sul neurone che parla, sono come gli auricolari che indossano tutti i cantanti dal vivo, dove si riascoltano escludendo la base musicale, per controllare se cantano bene o troppo forte o troppo piano.

Nei soggetti in cui ci sono meno recettori sul neurone che parla (e che quindi – per voler usare un’analogia comprensibile – non riesce a sentirsi bene e tende a parlare troppo forte come a volte fanno i sordi, e quindi a rilasciare più dopamina a seguito delle stimolazioni), si può ritrovare sia una personalità caratterizzata da manifestazioni analoghe, seppure in misura inferiore, a quelle che caratterizzano i sintomi della schizofrenia (personalità schizotipica), sia una maggior propensione a sviluppare psicosi, sia un maggior rischio di manifestazioni psicotiche dopo uso di cannabis.

tratto da Beaulieu, J. M., Del’Guidice, T., Sotnikova, T. D., Lemasson, M., & Gainetdinov, R. R. (2011). Beyond cAMP: the regulation of Akt and GSK3 by dopamine receptors. Frontiers in molecular neuroscience, 4. http://doi.org/10.3389/fnmol.2011.00038

Continuando ancora sui meccanismi cellulari che rientrano nella neurotrasmissione mediata dalla dopamina, un altro elemento su cui vertono gli studi è un enzima chiamato AKT-1 (conosciuto anche come proteinchinasi B o PKB, cioè un enzima che appiccica gruppi fosfato ad altre proteine, il che costituisce un segnale per stimolarne o inibirne la funzionalità). Oltre ad essere implicato nella risposta ai fattori di crescita, bloccando la morte cellulare programmata, e quindi nel cancro, ed in svariati meccanismi intracellulari, AKT-1 rientra anche nella cascata di eventi successivi al legame della dopamina con il suo recettore D2; in particolare, l’attività di AKT-1 viene ridotta dalla dopamina, e questo fa parte della concatenazione di eventi che decide la risposta del neurone dotato dei recettori D2. In pratica, più dopamina uguale meno attività di AKT-1.

Ora si è visto già più di dieci anni fa 10 che, partendo dall’ipotesi che nei soggetti schizofrenici ci fossero problemi nelle proteinchinasi, l’unica che risultava alterata era AKT-1, e che in effetti nei soggetti affetti e nei loro familiari si trovava più spesso una variante genetica di AKT-1 meno attiva, e che negli esperimenti gli animali con un deficit di AKT-1 avevano problemi a filtrare le percezioni irrilevanti, esattamente come i soggetti schizofrenici. Avere una variante meno attiva di AKT-1 potrebbe portare dunque ad un’iperattività della trasmissione dipendente da dopamina sui neuroni dotati di recettore D2, insomma come se ci fosse un amplificatore di segnale.

Anche nel caso di AKT-1, una sua variante genica (rs 1130253) condiziona le capacità di filtraggio degli stimoli irrilevanti dopo somministrazione di cannabis negli umani, ed un’altra (rs2494732), ad essa correlata per frequenza di trasmissione genetica e vicinanza nel cromosoma, condiziona l’associazione tra uso di cannabis e disturbi psicotici. Coloro che avevano due copie del gene mutato avevano un rischio maggiore di chi ne aveva una sola, che a sua volta ce l’aveva maggiore di chi non aveva copie mutate; e chi aveva fumato cannabis giornalmente, più di coloro che ne avevano fatto uso saltuariamente.

La ricerca su COMT, recettore D2 ed AKT-1 procede a volumi tali da confondere un po’ chi dall’esterno cerchi di seguirla (io ho tentato di farlo negli ultimi giorni, ed in effetti mi sento un po’ confuso), comunque mi sembra che il concetto guida da incorporare nel modello sia che i fattori che potenziano la trasmissione dopaminergica possano aumentare il rischio di sviluppare sintomi psicotici dopo uso di cannabis.

Ciò non toglie che altri gruppi seguano altre linee di ricerca: sulle variazioni geniche dei recettori dei cannabinoidi endogeni; sui livelli di anandamide ed altri endocannabinoidi; sul funzionamento del talamo, parte del cervello implicata nella ricezione e ritrasmissione delle percezioni alla corteccia cerebrale; sui recettori NMDA; insomma un lavoro ad ampio spettro che ancora non è pronto per la clinica, la prevenzione e la terapia. Ma sicuramente ci arriveremo.

  1. Spice drugs e dintorni http://blog.sitd.it/2016/07/13/758/
  2. Terapia dell’intossicazione e dell’astinenza da cannabinoidi sintetici http://blog.sitd.it/2016/04/18/terapia-dellintossicazione-e-dellastinenza-da-cannabinoidi-sintetici/
  3. Rimonabant: suicidio e depressione. “Non usarlo”: un’opinione della rivista Prescrire! http://www.farmacovigilanza.org/corsi/080131-06.asp
  4. Mancuso, C. E., Tanzi, M. G., & Gabay, M. (2004). Paradoxical reactions to benzodiazepines: literature review and treatment options. Pharmacotherapy: The Journal of Human Pharmacology and Drug Therapy, 24(9), 1177-1185. http://doi.org/10.1592/phco.24.13.1177.38089
  5. Cortes-Briones, J. A., Cahill, J. D., Skosnik, P. D., Mathalon, D. H., Williams, A., Sewell, R. A., … & D’Souza, D. C. (2015). The psychosis-like effects of Δ 9-tetrahydrocannabinol are associated with increased cortical noise in healthy humans. Biological psychiatry, 78(11), 805-813. http://doi.org/10.1016/j.biopsych.2015.03.023
  6. Set e Setting https://en.wikipedia.org/wiki/Set_and_setting
  7. The Concept of Schizophrenia Is Coming to an End – Here’s Why http://www.sciencealert.com/the-concept-of-schizophrenia-is-coming-to-an-end-here-s-why#.WaPDxeqGmT0.link
  8. Benyamina, A., Karila, L., Lafaye, G., & Blecha, L. (2016). Genetic Influences in Cannabis Use Disorder and Psychosis: Dopamine and Beyond. Current pharmaceutical design, 22(42), 6392-6396. http://doi.org/10.2174/1381612822666160831095707
  9. Bloomfield, M. A., Ashok, A. H., Volkow, N. D., & Howes, O. D. (2016). The effects of Δ9-tetrahydrocannabinol on the dopamine system. Nature, 539(7629), 369-377. http://doi.org/10.1038/nature20153
  10. Hallmayer, J. (2004). Getting our AKT together in schizophrenia?. Nature genetics, 36(2), 115-116. http://doi.org/10.1038/ng0204-115

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