Una analisi filosofica dei benefici terapeutici degli psichedelici

Ancora un’interessante recensione del prof. Nencini, e ancora sull’argomento delle terapie con sostanze psichedeliche.

Le potenzialità terapeutiche insite nell’azione psicofarmacologica degli psichedelici giustifica il crescente interesse verso questi farmaci che sta percolando nella pubblicistica divulgativa. In questo blog Gaetano Di Chiara ha riassunto molto bene lo stato dell’arte della ricerca clinica indicando nella depressione maggiore il più promettente dei bersagli terapeutici della psilocibina, lo psichedelico di impiego più agevole. L’articolo illustra anche il possibile meccanismo d’azione terapeutico focalizzandosi sull’interazione, come agonisti, con i recettori 5HT2A e il conseguente processo di neuroplasticità così innescato. Assai opportunamente, l’articolo prende anche in considerazione l’osservazione che a beneficiare degli effetti terapeutici della psilocibina sono soprattutto i pazienti che in acuto sviluppano una condizione psicologica identificata, attraverso batterie di test psicometrici, con una “esperienza mistica”. In effetti, alcuni autori ritengono che al di là dell’azione farmacodinamica di base, è l’insorgere di questa esperienza il determinante dell’effetto terapeutico, una interpretazione che colloca gli psichedelici in una posizione davvero peculiare rispetto ad ogni altra classe di farmaci d’impiego psichiatrico.

Vi sono dunque buoni motivi epistemologici perché del meccanismo d’azione terapeutico degli psichedelici si occupino anche i filosofi. Lo fa un accademico australiano, Chris Letheby, in un libro appena pubblicato dalla Oxford University Press, dal titolo assai diretto di Philosophy of Psychedelics (2021, 261 pagine). Letheby si colloca nella larga schiera contemporanea dei filosofi naturalisti, a coltivare quindi quella linea di pensiero che vede la filosofia come continuazione dell’opera delle scienze naturali e da questa prospettivia, l’autore esamina le varie opzioni fornite a spiegazione dell’azione terapeutica degli psichedelici. Così esclude che possa essere sufficiente una interpretazione meramente psicofarmacologica cellulo-molecolare, che definisce Teoria della Neuroplasticità Molecolare, in quanto non rende conto del ruolo dell’esperienza mistica non necessariamente conseguente all’effetto molecolare di tali farmaci (non tutti i soggetti trattati vivono questa esperienza). L’autore ritiene invece che tutti i livelli della gerarchia meccanicistica che lega la neurobiologia degli psichedelici alla fenomenologia dei loro effetti siano importanti, cosicché la neuroscienza molecolare non può rimpiazzare la psicologia così come la chimica non può sostituire la sociologia (p.106-107).

L’autore si rivolge quindi ai meccanismi psicologici interposti tra quelli molecolari e gli effetti terapeutici, rivolgendosi prima di tutto a quella che chiama la Teoria della Credenza Metafisica, secondo la quale a provocare gli effetti benefici degli psichedelici sarebbe il sorgere della fede in una “Cosmologia Gioiosa”. È una tesi che trova autorevoli sostenitori, tra i quali spicca Houston Smith, eminente storico delle religioni, secondo il quale “il messaggio fondamentale degli enteogeni è che esiste un’altra Realtà che pone in ombra questa”, una realtà che, secondo lo psichiatra Stanislaw Grof, sfuggirebbe agli strumenti di analisi che definisce cartesiano-newtoniani. Comprensibilmente, altri hanno avuto buon giuoco a formulare una “Comforting Delusion Objection” secondo la quale questa supposta realtà è null’altro che una “allucinazione metafisica” particolarmente confortante per il malato terminale. Letheby nota che i sostenitori di entrambe le opposte posizioni condividono comunque l’opinione che l’esperienza psichedelica fornisce frutti positivi, provocando una sorta di Post Traumatic Stress Disorder al contrario.

È comprensibile che la “Comforting Delusion Objection” crei al filosofo un problema epistemologico di non poco conto avendo difficoltà ad accettare che il Bene e il Meraviglioso prevalgano sul Vero. Molto pragmaticamente la questione potrebbe essere risolta appellandosi alla nozione di effetto placebo, ma Letheby si propone di dimostrare che la capacità degli psichedelici di produrre sapere, intuizione e spiritualità sono perfettamente compatibili con una visione naturalistica della realtà. A tal fine l’autore si avvale della nozione di “epistemic innocence” formulata da Lisa Bortolotti. Con questa locuzione la filosofa italiana individua quelle cognizioni che pur essendo imperfette, producono benefici epistemici significativi, come nel caso delle “illusioni difensive” che, nella misura in cui distanziano un soggetto dalla propria patologia, gli permettono di continuare ad arricchire l’esistenza di esperienze cognitivamente significative attraverso l’interazione con l’ambiente: tutti benefici epistemici. Secondo Letheby questo concetto si applica anche ai benefici indotti dalla terapia psichedelica: “Nella misura in cui il depresso, l’ansioso o il dipendente sperimenta una persistente remissione dei sintomi in seguito ad una sessione psichedelica, è probabile che [questi soggetti] interagiscano maggiormente con altre persone e con il mondo che li circonda, ottenendo proprio i benefici epistemici descritti dalla Bortolotti.” (p.193).

Ma come avvengono queste profonde e persistenti trasformazioni psicologiche? Il modello interpretativo fornito da Letheby propone che i benefici terapeutici degli psichedelici in ultima analisi derivino dalla decostruzione e conseguente ricostruzione delle rappresentazioni mentali di sé. Questi eventi trasformativi sono spiegabili all’interno della teoria cognitiva secondo la quale il cervello funziona come una macchina inferenziale che costruisce modelli della realtà basati su approssimazioni statistiche dell’ipotesi migliore, continuamente aggiornati attraverso il confronto con gli input sensoriali. Il punto cruciale è che questo aggiornamento è sotto il controllo gerarchico di convincimenti, definiti come priorità, che lo costringono entro i limiti definiti dalle priorità stesse. In condizioni psicopatologiche, questi convincimenti possono assumere caratteristiche aberranti -soprattutto sotto forma di una percezione negativa di se stessi- che tuttavia debbono la loro persistenza al fatto che svolgono funzioni difensive di autoprotezione nella misura in cui riducono il senso di incertezza riguardo alla realtà. L’effetto degli psichedelici consisterebbe nell’allentare i vincoli posti da tali priorità, conferendo maggiore flessibilità cognitiva e offrendo l’opportunità di modificare in profondità modelli di sé e della realtà rigidamente trincerati in una condizione patologica. Insomma, sotto l’effetto degli psichedelici diverrebbe possibile un reset di configurazioni mentali disfunzionali, soprattutto dell’immagine di sé.

È importante osservare che quanto argomentato dal filosofo australiano si avvale in larga misura dei contributi empirici e teorici di Carhart-Harris, uno dei maggiori studiosi nel campo degli psichedelici, che ha recentemente formulato una teoria denominata “relaxed beliefs under psychedelics” (REBUS). Nell’abstract dell’articolo che propone questa teoria si afferma che essa è “fondata sul principio che, attraverso il loro effetto entropico sull’attività corticale spontanea, gli psichedelici allentano la precisione delle priorità o convincimenti di più alto livello, liberando quindi il flusso bottom-up di informazioni, particolarmente quelle provenienti da fonti intrinseche quale il sistema limbico” (Carhart-Harris, R. L., & Friston, K. (2019). REBUS and the anarchic brain: toward a unified model of the brain action of psychedelics. Pharmacological reviews, 71(3), 316-344). 

Philosophy of Psychedelics  sembra dare per scontata l’efficacia terapeutica di questa classe di farmaci in una serie di condizioni psicopatologiche; certo, un po’ prematuramente tenuto conto che non si è ancora andati oltre la fase 2 della sperimentazione clinica.  Un indubbio merito del libro consiste tuttavia nel tentativo riuscito di sistematizzare con gli strumenti della filosofia naturalistica la massa fluida delle acquisizioni empiriche fornite dalle neuroscienze, fornendo al lettore un quadro d’assieme che rende superflue le interpretazioni metafisiche degli effetti degli psichedelici. 

Non resta che osservare la completa assenza nel libro di riferimenti alla collocazione legale degli psichedelici tra gli stupefacenti, a sottolineare implicitamente come in agenda non vi siano che le potenzialità terapeutiche di questi farmaci, mentre quella collocazione non è che un relitto anacronistico di contesti storico-culturali ampiamente superati.

Paolo Nencini
Unitelma Sapienza
Università degli Studi di Roma

 

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