Paolo Nencini recensisce “La Scommessa Psichedelica” di Federico Di Vita

Riceviamo e volentieri pubblichiamo, dal professor Paolo Nencini, nostro socio onorario, la sua recensione de “La Scommessa Psichedelica” di Federico Di Vita.

A PROPOSITO DI “PSICHEDELIA”

Il rinnovato interesse per le sostanze psichedeliche, che da un paio di decenni percorre ricerca e pubblicistica soprattutto del mondo anglosassone, ha raggiunto anche la pigra editoria italiana. Ne è testimonianza “La scommessa psichedelica” (a cura di Federico di Vita, Quodlibet Studio, 2020), un agile e scorrevole volume che, con il contributo di numerosi autori, copre un ampio ventaglio di temi: dalla storia dell’uso di tali sostanze, alle esperienze soggettive con esse, alle ricerche che ne stanno individuando i meccanismi d’azione ed esplorando le loro applicazioni terapeutiche, agli aspetti culturali variamente declinati. Una tale ricchezza è certamente in grado di soddisfare quel lettore curioso che sia al suo primo approccio con l’argomento, al costo tuttavia di una certa superficialità sia nella selezione delle fonti che nelle analisi.

Nel caso delle fonti, ci si sarebbe aspettati di andare oltre i ben noti Michaux, Huxley, McKenna etc. per chiamare in causa, ad esempio, gli studi pionieristici sugli effetti soggettivi del mescal condotti e descritti in maniera stupenda dal neuropsichiatra americano Silas Weir Mitchell (1829-1914) e dall’inglese Henry Havelock Ellis (1859-1939), medico anch’esso e di straordinario eclettismo intellettuale. Soprattutto sarebbe stato utile prendere in considerazione la figura dello scrittore e pittore polacco Stanislaw Witkiewicz (1885-1939) che con il suo romanzo “Insaziabilità” pubblicato nel 1927, anticipa Huxley nel descrivere l’uso sociale di una sostanza psicotropa, introducendo il Davamesc B2, un “narcotico infernale, i cui effetti visionari superavano di cento volte la realtà più evidente” e alla cui invenzione avevano lavorato “i cervelli più ferrati tra i chimici cinesi”.

Per quanto riguarda le analisi, temo che il libro non abbia affrontato alcuni nodi di fondo della psichedelia. Tra questi nodi forse il più importante consiste nel rifiuto dell’approccio neurobiologico a spiegare gli effetti dei farmaci psichedelici, esplicitamente espresso da esponenti di primo piano del “Council on spiritual practices” raccolto attorno a Robert Jesse, ingegnere elettronico della West Coast e promotore instancabile dell’uso “enteogeno” delle sostanze psichedeliche. Lo psichiatra Stanislaw Grof, ad esempio, ritiene che i benefici terapeutici ottenuti con questi farmaci non possano essere “adeguatamente spiegati nei termini dettati dall’approccio meccanicistico newtoniano-cartesiano all’universo” e su questa stessa linea si pone lo psicologo William Richards, memoria storica dell’uso terapeutico degli psichedelici, che nel suo recente “Sacred Knowledge. Psychedelics and Religious Experiences” (2016) considera “inadeguati e inutilmente riduzionistici” tutti quegli studi che stanno cercando di mettere in relazione la coscienza con l’attività elettrica del cervello. Allo stesso circolo appartiene Roland Griffiths, psicofarmacologo di grande valore, che tuttavia ha voluto esplorare con indiscutibile rigore “newtoniano-cartesiano” lo stato mentale indotto dalla psilocibina così simile ad una illuminazione mistica. Nel libro si accenna e di sfuggita solo al primo di questi studi, che era stato accolto con un entusiasmo tale da prospettare sulle autorevolissime pagine del New England Journal of Medicine la possibilità di individuare finalmente il “brains locus of religion”, ma è un peccato che non si siano presi in considerazione anche i più recenti di questi studi, dove la locuzione “mystical experience” è sostituita da quella assai più neutra di “Quantum change experiences”, intese come esperienze che causano persistenti trasformazioni personali riguardanti un ampio ventaglio di emozioni, conoscenze e comportamenti. In tali studi si evidenzia la capacità della psilocibina, somministrata in un contesto che incoraggia gli esercizi spirituali, di provocare un durevole aumento dei punteggi in una scala psicotecnica che misura il rispetto per la tradizione, la moderazione nei sentimenti e nelle azioni, l’umiltà, l’accettazione delle circostanze della vita, e la conservazione delle credenze religiose e della fede (Griffiths et al. 2018). Questi dati sono in linea con quanto studiosi di formazione psicologico-filosofica stanno elaborando e cioè che le sostanze psichedeliche possano essere utilizzate per un rafforzamento della “moralità” degli individui (Ballesteros 2020). Su una cosa del genere credo che ci sia molto da riflettere e con il dovuto allarme.

Nel libro si insiste molto sugli studi condotti presso l’Imperial College di Londra, studi certamente importanti ma, con tutto il rispetto per David Nutt, i dati ottenuti con il brain immaging non sono di per sé dirimenti e sarebbe bene inquadrarli all’interno dei modelli di riferimento più generali forniti dagli studi sulla biofisica della mente. Basti citare la “Integrated Information Theory”, un modello di funzionamento dello stato di coscienza proposto dal neurologo italiano Giulio Tononi, che permette una formalizzazione matematica della qualità e quantità dell’esperienza cosciente. All’interno di questo modello lo stato psichedelico appare caratterizzato da un aumento della flessibilità cognitiva, della creatività e dell’immaginazione, ma ciò a spese dell’informazione sul nesso causa-effetto, “diminuendo la capacità del cervello di organizzare, categorizzare e differenziare i costituenti dell’esperienza cosciente.” (Gallimore 2015). Insomma, stati altri di coscienza, certamente, ma non certo efficienti. Che poi questi farmaci abbiano una efficacia terapeutica lasciamolo decidere agli scienziati, come giustamente sottolinea Marco Cappato: nell’ultimo mezzo secolo, la psicofarmacologia ha vissuto già abbastanza delusioni.

L’altro nodo, a mio avviso importante, è quello dell’inquadramento storico dell’uso magico-religioso delle sostanze psichedeliche. Nel libro si dà per scontato che tale uso abbia una origine remota, ma credo che a tal proposito colga il punto l’antropologo inglese Andy Letcher quando nota che il convincimento dell’antichità dell’uso degli allucinogeni risalga piuttosto ai sentimenti utopici che hanno accompagnato la rivoluzione psichedelica degli anni ’50 e ’60 (Shroom. A cultural history of the magic mushroom, 2006). Cosicché, secondo l’antropologo, ogni rappresentazione che vagamente rassomigli ad un fungo, in quanto rotondo, a cupola, a forma d’ombrello, o comunque di forma inusuale, deve essere un fungo e quindi una prova di un culto segreto fondato sul fungo agarico. Se poi non v’è nessuna prova, ciò è spiegato come il risultato di quanto il fungo sia stato sacro e quindi segreto: ad Eleusi il ciceone non poteva che contenere un fungo psicotropo a scelta e il soma vedico altro non poteva essere che l’Amanita muscaria. Inutile che gli specialisti alzino il sopracciglio, questi convincimenti vengono ripetuti fino ad assumere le sembianze di veri e propri fatti, ma, usando il termine coniato da Norman Mailer, hanno tutte le caratteristiche di fattoidi, qualcosa divenuto fattuale semplicemente perché ripetutamente affermato e divulgato. Si potrebbe scrivere una storia della creazione di fattoidi nel campo delle sostanze psicotrope, a partire da una cosiddetta “pianta della gioia” sumerica che si vuole essere il papavero da oppio.

Due precisazioni infine. Nel saggio introduttivo si accenna alla somministrazione di LSD presso la Clinica psichiatrica dell’Università di Torino da parte di Giuseppe Tonini. Per quanto ne so, il dottor Tonini studiò gli effetti del farmaco sulla produzione artistica di un pittore per riprodurre i sintomi schizofrenici mentre lavorava all’Ospedale di Imola a metà degli anni cinquanta. Presso l’Università di Torino furono invece Gomerato e collaboratori che somministrarono LSD a pazienti schizofrenici sottoponendoli poi ad un test che richiedeva il disegno di un albero. A distanza di molti anni lo studio suscitò una campagna di stampa che mise alla gogna questi psichiatri e che trovò il suo culmine nella pubblicazione da parte di Guido Blumir di “Droga e follia. Documenti sui malati-cavia negli ospedali psichiatrici italiani”, come ha ricostruito Margherita Simi nella sua ottima tesi di laurea dedicata al superamento degli Ospedali Psichiatrici. Insomma gli studi che oggi costituiscono un vanto per l’Imperial College, nell’Italia dei primi anni settanta erano fonte di scandalo e anche su questo sarebbe il caso di riflettere a fondo.

La seconda precisazione riguarda il riferimento a Enrico Morselli, definito uno dei padri della psichiatria italiana, che suscita qualche perplessità sulla sua identificazione. Infatti chi autosperimentò la psilocibina si chiamava Giovanni Enrico Morselli e fece vita piuttosto appartata; diversamente Enrico Morselli (1852-1929), ordinario di psichiatria nell’Università di Genova, fu influentissimo neuropsichiatra a cavallo del secolo ma mai si occupò di allucinogeni.

In definitiva, il libro ha un approccio superficiale al fenomeno della “psichedelia”, subendone il fascino al punto da non riuscire a porsi in una posizione di analisi critica che sarebbe stata assai utile in questa fase di scoperta da parte della pubblicistica nostrana. Evidentemente in tale pubblicistica manca ancora la capacità di ragionare con distacco sull’uso delle sostanze psicotrope, oscillando tra gli opposti poli delle militanze celebrative e proibizioniste. Ciò che sorprende, e dispiace, è che anche le entusiastiche recensioni di cui ha goduto il libro non abbiano colto questa superficialità di analisi.

Paolo Nencini

paolo.nencini@unitelma.it

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