Maia e l’America in overdose

Oggi ho avuto il piacere di partecipare ad un convegno su “La dipendenza come risposta di adattamento” tenuto presso l’Opera Cenacolo Cristo Re di Biancavilla. Ho presentato una relazione intitolata “Dipendenza come adattamento: il dibattito oggi in USA”, e poiché sembra che sia stata abbastanza gradita dai presenti, ne dò conto qui nel blog come contributo aperto alla discussione.

Il filo logico della relazione parte dalla constatazione che negli ultimi anni l’incidenza delle overdose letali negli Stati Uniti è aumentata vertiginosamente, sia da eroina che da antidolorifici oppioidi, raggiungendo addirittura il valore di 120 eventi al giorno.

La ragione di questa epidemia è identificata dall’ASAM, società scientifica americana sulle dipendenze, nell’eccesso di prescrizioni improprie di antidolorifici oppioidi. Questa gran massa di farmaci ha indotto una dipendenza iatrogena sia nei pazienti destinatari delle prescrizioni che – forse maggiormente – in persone a cui questi farmaci venivano ceduti a vario titolo. E quando i soggetti dipendenti da oppioidi farmaceutici non sono riusciti più a procurarsi i farmaci, per indisponibilità dei prescrittori o per il prezzo eccessivo, la conseguenza è stata il ricorso all’eroina da strada.

Tra gli antidolorifici prescritti in maniera impropria, una recentissima inchiesta del Los Angeles Times ne individua uno in particolare, a base di ossicodone a rilascio controllato, l’Oxycontin. L’industria produttrice, tenendo particolarmente a presentarlo come innovativo per assicurarsi l’acquisto al posto dei generici meno costosi – lo ha promosso come somministrabile ogni 12 ore, anche se in una rilevante quota di pazienti questo intervallo di somministrazione era insufficiente. E per non cedere sul punto innovativo, l’industria ha spinto i prescrittori ad aumentare i dosaggi anziché suddividere la dose in un numero maggiore di somministrazioni. Questo provoca – come ben noto nella medicina delle dipendenze – picchi ematici eccessivi con euforia seguiti da rapide discese degli effetti con sintomi astinenziali, esattamente il contrario che si cerca in un buon trattamento terapeutico, e tende facilmente a generare dipendenza. Il produttore di questo farmaco, infatti, è stato denunciato, e si vedrà l’esito del processo.

Poiché la fonte del “contagio” non è più soltanto quella dello spaccio di sostanze da strada, i morti non sono più soltanto i neri, i latinos o i marginali, ma cittadini bianchi anglosassoni, giovani e adulti, donne e madri di famiglia, gente della classe media o abbienti. Spiace dirlo ma proprio per questo la società americana adesso si mobilita e la percezione della tragedia in corso è diffusa nei mezzi di comunicazione e nel dibattito pubblico.

Il presidente Obama, infatti, ha dichiarato che l’America vive oggi un problema sanitario e non semplicemente criminale, ed annunciato uno stanziamento finanziario straordinario, per aggiornare il sistema di cura. Dovrebbero venire riconsiderati i criteri e le modalità di prescrizione degli antidolorifici oppioidi attivando un monitoraggio informatico delle prescrizioni, e potenziando i trattamenti farmacologici (che per gli Americani sono i MAT, Medication-Assisted Treatments), aumentando il numero di pazienti che ogni medico può legittimamente assistere, ed incrementando la disponibilità di naloxone.

Nella seconda parte della relazione ho voluto illustrare il lavoro di Maia Szalavitz, giornalista e scrittrice con un passato dichiarato di uso di sostanze, che ha assunto l’impegnativo ruolo di spiegare, dalle colonne dei maggiori quotidiani e siti internet statunitensi, le ragioni dell’attuale grave situazione, ed i possibili interventi alla luce delle evidenze scientifiche. La società americana ha riconosciuto l’importanza del suo lavoro divulgativo, con premi da parte dell’American Psychological Association per il suo “prmario contributo all’avanzamento della comprensione delle dipendenze”, premi per il giornalismo scientifico nello stesso settore, ed il riconoscimento da parte della fondazione di Gieorge Soros per la “advocacy” a favore delle persone affette da dipendenze

Il materiale per illustrare il suo lavoro l’ho tratto dal capitolo conclusivo del suo ultimo recente libro, “Unbroken Brain: Treating Addiction as a Learning Disorder”.

È malinconicamente illuminante rendersi conto che sia il nucleo dell’interpretazione delle dipendenze nel lavoro di Maia, che le modalità proposte per il migliore intervento possibile, corrispondono in buona parte a come si era impostato il sistema di cura in Italia con il corpus legislativo del 1990.
Maia spiega come la dipendenza non sia basata sulla semplice assunzione ripetitiva di sostanze psicoattive, ma che essa è un comportamento appreso, nel momento in cui la persona si rende conto che le sostanze la aiutano ad adattarsi alle situazioni ed alle emozioni negative, e non ha avuto modo di sperimentare ed imparare modalità di adattamento più funzionali e meno dannose.
Spiega inoltre che la persona dipendente non ha perso le sue qualità umane ed è in grado di disimparare il ricorso alle sostanze ed apprendere nuove competenze che le sostituiscano. Questo può verificarsi, però, quando viene proposto un trattamento rispettoso, attraente, non coatto, non punitivo, non basato sull’umiliazione di dover “toccare il fondo” o rigidamente legato a paradigmi ideologici e refrattari alle evidenze di realtà.
Maia ribadisce l’importanza del trattamento farmacologico, e rimarca che non va negato o centellinato, perché salva vite umane, ma spiega che per funzionare al meglio il trattamento non deve limitarsi alla sola dimensione medica, ma aver caratteristiche bio-psico-sociali e culturali, analizzando e rivolgendosi ai bisogni della persona, non limitandosi a proporre uno stereotipo per tutti. Questo, senza dimenticare la fondamentale importanza della prevenzione primaria, da orientare verso l’apprendimento dell’autoregolazione emotiva e delle competenze sociali; dell’informazione corretta, pragmatica e non ipocrita o terrorista, e della riduzione del danno, non solo per i consumatori ma anche nelle politiche sociali e sanitarie.

Parte di questa visione si ritrova in quello che dagli anni ’90 in avanti è stato, sicuramente in teoria, e forse in qualche fortunato caso anche in pratica, il trattamento dei SerT: ambulatori ad accesso libero anonimo e gretuito, disseminati nel territorio, con presa in carico medica, psicologica, sociale e educativa, orientati ai bisogni del paziente, in grado di erogare tutti i trattamenti riconosciuti come validi compreso quello oppioide agonista, in collaborazione con le comunità terapeutiche accreditate ed il resto del welfare sociale e sanitario, ed orientati anche alla prevenzione.

La malinconia a cui accennavo ovviamente nasce dal decadimento di questo modello per l’incuria della classe politica, che per ignoranza o malafede ha voluto dimenticarsi dei SerT sottraendo gli specifici fondi che consentivano loro l’agilità di adattamento al mutare della società, delle droghe e dei comportamenti a rischio, e negando loro dotazioni strutturali dignitose e turnover del personale.

Così, mentre gli Stati Uniti si inventano un nuovo sistema di intervento per le dipendenze che inizia ad ispirarsi a quello nostro, moderno già venticinque anni fa, noi lasciamo che il nostro sistema si indebolisca e si demotivi nella routine. Nel frattempo alle vecchie droghe e all’alcol si va aggiungendo, a maggior spesa zero ed a personale decimato, la cura degli ammalati da dipendenza da gioco d’azzardo, e già all’orizzonte si intravede la sfida impari delle nuove sostanze psicoattive.

Ma torniamo al lavoro di Maia: la conclusione è il riconoscimento e l’accettazione della diversità del funzionamento neuropsichico di ogni persona (la neurodiversità, un concetto partito dalle persone affette da disturbi dello spettro autistico). Quando la diversità delle persone viene accettata e superata, e ci si focalizza non sulle disabilità ma sulle abilità, si aprono orizzonti nuovi di creatività e di promozione umana.

La presentazione si conclude con il messaggio che avevo chiesto a Maia di indirizzare al pubblico del convegno, dove riassume e ribadisce i punti principali del suo pensiero.

 

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