Uscire dalla comunità per poi morire

Anche se questa è normalmente la policy di questo blog, ritengo opportuno precisare che le opinioni espresse di seguito sono personali e non rappresentano in alcun modo la posizione ufficiale della SITD, che ospita queste pagine e che su questo argomento non si è ancora espressa (Salvatore Giancane).

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Si può scrivere un articolo su di un blog scientifico con emozione e, soprattutto, è il caso di scriverlo quando non si è lucidi e distaccati? Sono domande complesse e forse opportune, ma confesso di aver accuratamente evitato di pormele, perché ho bisogno di scrivere, cercando di evitare qualsiasi manierismo di circostanza e nel rispetto assoluto del dolore della famiglia. Perché quanto è accaduto non deve più accadere e la morte di P. non deve essere inutile. Perché sia così, nessuno deve ‘giocare in difesa’ e dobbiamo avere il coraggio di parlarne, di analizzare. E per farlo abbiamo bisogno ancora di sapere.

Siamo tutti sconvolti per la notizia di una giovane e bella ragazza, ritrovata tagliata a pezzi in due valigie diverse nelle campagne attorno a Macerata. L’aspetto truce e sanguinolento di questa vicenda, però, per quanto disumano ed inaccettabile, rischia di oscurare il vero nodo, ovvero la dinamica che ha portato una giovane tossicodipendente da eroina ad abbandonare un percorso comunitario per essere poi ritrovata fatta a pezzi in un fosso. Vi sono alcune domande che, alla luce delle mie competenze e della conoscenza della problematica, non posso non pormi. Sono domande che necessiterebbero una risposta e non alla ricerca di responsabilità dei singoli, che non ci sono, ma per riflettere sugli aggiustamenti subito necessari nel sistema di prevenzione e cura e, perché no, anche nella nostra legislazione.

Premetto di non conoscere il percorso e le dinamiche che hanno condotto P. in comunità. Ho letto solo superficialmente le notizie dei giornali, delle quali mi fido il giusto, cercando di leggere fra le righe per comprendere quali potessero essere le possibili dinamiche reali e, soprattutto, i possibili punti deboli. Non è di P., quindi che parliamo, ma di alcuni possibili percorsi, per alcuni versi assai simili. Facendo una disamina di questo tipo, le domande sono tante ed inquietanti e, messe tutte assieme, configurano un concorso di fattori di rischio. Tutti importanti e tutti, ahimè, in alcuni casi ormai connaturati nell’operatività clinica e perfino nel codice.

  1. Stando alle notizie di stampa, P. era ‘romana’. Non si comprende se romana di origine, ma residente nelle Marche oppure se vivesse a Roma. In questa seconda ipotesi, al di là di chi possa aver favorito (o assecondato) questa scelta, la mia domanda è: perché collocare una ragazza problematica, che aveva già abbandonato la comunità pochi mesi prima, così distante da casa sua? Quali motivi clinici sostenevano questa scelta impegnativa e rischiosa? Perché, in caso di inserimento di persona con alto rischio di abbandono, il trovarsi distante da casa configura un ulteriore fattore di rischio dopo un’eventuale uscita. A maggior ragione se ci si viene a trovare in una delle regioni italiane in cui la disponibilità di eroina è maggiore, come si evince dalle statistiche e come denunciano gli stessi operatori della comunità. Chi abbandona si sente libero e senza freni e più si è lontani da casa più questa sensazione aumenta. Del resto, che Macerata fosse una provincia difficile e che la comunità scelta operasse in condizioni di difficoltà a causa del fiorente mercato illegale lo dimostrava già il fatto che, nella stessa struttura, solo pochi mesi prima un altro ospite era stato trovato deceduto per overdose nel suo letto.
  2. P. era una paziente ad alto rischio di abbandono e lo dimostra l’analoga decisione presa pochi mesi prima. Inoltre era probabilmente portatrice di una ferita interiore, aperta e assai dolorosa. Lo dice lei stessa sulla sua pagina Facebook “Tutti dipendiamo da qualcosa che ci fa dimenticare il dolore”. Solitamente le giovani tossicodipendenti con questo profilo sono difficilmente contenibili, perché utilizzano l’eroina in modo ‘farmacologico’, ovvero come anestetico delle proprie emozioni ed hanno un craving di grado elevato. Una paziente con un profilo di questo tipo dovrebbe essere inserita in comunità con adeguata copertura di farmaco agonista, in questo caso meglio il metadone della buprenorfina. Per due ragioni fondamentali: 1) perché se prescritto a dosaggio adeguato è in grado di contenere il craving e ridurre significativamente il rischio di abbandono; 2) perché in caso di abbandono, come suggerisce in maniera unanime la letteratura internazionale, è in grado di ridurre (fino a pressoché azzerare) il rischio di overdose e anche quello di ricaduta. Voglio augurarmi che un paziente di questo tipo non sia stato inserito in un programma drug-free fin dall’ingresso e di tipo unicamente educativo, magari rigido rispetto a qualsiasi integrazione farmacologica. L’esperienza delle comunità che si sono aperte al trattamento farmacologico, non solo dimostra che questo non interferisce con le finalità del percorso educativo, ma che ne aumenta l’adesione, la ritenzione in trattamento e riduce il rischio di morte all’uscita, specie se si opera in un territorio a rischio. Non so se P. sia entrata in comunità protetta dal trattamento farmacologico ma, una volta per tutte ed in via definitiva, mi sento di ribadire che non vi è ragione per cui il percorso riabilitativo psico-socio-educativo richieda come obbiettivo la sospensione della terapia con metadone, almeno fino a quando vi sono ragioni cliniche per mantenerla. Il trattamento farmacologico mantiene la tolleranza e previene l’overdose: la ‘guarigione’, a sua volta, non coincide con la privazione della tolleranza, ma con la cessazione dell’assunzione di eroina ed il ritorno ad una normale vita familiare, sociale, affettiva e lavorativa.
  3. Un episodio di overdose occorso in una comunità di Bologna alcuni anni fa ha stimolato la discussione fra le comunità ed i servizi pubblici del territorio. Ne è scaturito una bozza di elenco di buone pratiche, già pubblicato su questo blog ed in via di formalizzazione ed affinamento e che probabilmente costituirà materia per un convegno. Tutti i programmi hanno i loro effetti collaterali, compreso quello comunitario ed in particolar modo i percorsi drug-free, in cui questi possono essere letali. E’ quindi necessario prevederli ed attrezzarsi, come si fa per gli effetti collaterali dei farmaci ed è necessario avere procedure condivise con la famiglia ed i servizi per la gestione dei momenti più a rischio ed in particolar modo degli abbandoni di percorso contro il parere degli operatori. Ad esempio, la scelta di non consegnare a P. il telefono ed i soldi che viene riportata dalla stampa, se vera, desta alcune perplessità. Se una ragazza giovane e bella si viene a trovare lontana da casa, in preda una crisi di craving, senza possibilità di chiamare la famiglia e senza soldi è più facile che si vada a cacciare in situazioni a rischio. Ne deriva che le regole di funzionamento delle comunità terapeutiche andrebbero rivalutate alla luce di questi fattori di rischio. Ma questo è possibile solo se dall’interno viene avviata una profonda riflessione.
  4. Le ipotesi investigative, fino a questo momento, prendono in considerazione sia l’ipotesi dell’omicidio, che quella dell’overdose con successivo occultamento di cadavere, associato al vilipendio. Questa seconda ipotesi è inquietante, perché mette a nudo un grave difetto del nostro sistema, che denuncio ormai da anni, anche da questo blog ed in tempi non sospetti. Grazie all’introduzione dell’articolo ‘morte in conseguenza di un altro reato’ (che non ha portato il benchè minimo vantaggio), in Italia l’overdose è diventata sempre più un problema di polizia e sempre meno un’emergenza sanitaria. Questo ha prodotto comportamenti da parte delle forze di Polizia e della Magistratura, per i quali le vittime ed i presenti che avevano chiamato i soccorsi, da vittime diventavano indagati. Basta effettuare qualche ricerca in Google per leggere notizie di interrogatori e perquisizioni subito dopo il risveglio o incriminazioni di persone presenti che avevano allertato i soccorsi. Queste notizie le leggono anche i tossicodipendenti ed il risultato è che, negli ultimi tempi, sempre meno gente chiama i soccorsi o esita troppo. E’ accaduto per la ragazza in overdose da ecstasy a Genova, è accaduto anche di recente per il ragazzino in overdose da metadone ad Avellino. In molti paesi, compresi gli Stati Uniti, esistono le cosiddette leggi del Buon Samaritano, le quali garantiscono l’immunità per piccoli reati sulla legge degli stupefacenti ed altre violazioni secondarie in caso i soccorsi vengano prontamente allertati e le persone che chiamano si trattengano sul posto fino all’arrivo dell’ambulanza. Si tratta di un approccio civile, che favorisce il soccorso e privilegia il salvare una vita umana sull’arrestare un piccolo spacciatore che ha ceduto una delle centomila bustine di eroina vendute in Italia ogni giorno. Poniamo il caso che si tratti di overdose e che il nigeriano a casa di cui P. si trovava abbia esitato a chiamare i soccorsi, perché pregiudicato ed irregolare, per paura del carcere e dell’espulsione. Supponiamo ancora che, in conseguenza dell’esitazione, P. sia morta e questa persona sia entrata poi nel panico, facendo quell’orribile gesto per portare il cadavere fuori di casa e sbarazzarsene. Oppure abbia compiuto un orribile rituale. Ecco che il momento in cui P. poteva essere salvata non è quello dello smembramento, ma quello in cui la persona presente poteva prontamente allertare i soccorsi e forse ve ne sarebbe stata una probabilità in più, se avesse saputo che non gli sarebbe successo niente. Forse. Sicuramente invece le sue responsabilità, in caso di mancata chiamata, sarebbero state più chiare e più gravi.

Leggi del Buon samaritano

Non sappiamo nulla della morte di P. e non conosciamo il percorso che l’ha portata in quella casa maledetta. Abbiamo fatto solo delle ipotesi, utili a tutti per considerare i possibili fattori di rischio. Se queste però sono state le dinamiche, di chi è la responsabilità della morte di P.? Il pusher nigeriano certamente è un colpevole ideale, anche alla luce del suo efferato gesto. Che però, in caso di overdose (da confermare), sarebbe avvenuto dopo il decesso.

Se di overdose si tratta, quello che ha condotto al decesso non è una responsabilità individuale, ma “di sistema”. Un sistema da rivedere e da riformare.

Un pensiero riguardo “Uscire dalla comunità per poi morire

  1. Mariagrazia Fasoli ha detto:

    E’ dal 1984 (almeno, perchè c’era quando ho cominciato a lavorare al SERT di Montichiari e, naturalmente, ad applicarla) che esiste una circolare del Ministero della Sanità (si chiamava così), mai ritirata, che impegna i servizi ad assicurarsi che i consumatori di eroina siano forniti di Narcan e di relative informazioni. Siamo l’unico paese europeo in cui un unico farmaco da somministrare endovena (appunto in Narcan) è un farmaco da banco in fascia A, cioè è obbligatorio averlo in tutte le farmacie ed è acquistabile senza ricetta. L’accesso ai servizi è consentito per legge (caso, credo, unico al mondo) a “chiunque faccia uso”, senza spese, senza alcuna formalità ed anche in anonimato (cioè in modo che “la scheda sanitaria non contenga le generalità nè alcun elemento atto all’identificazione”). I programmi di riduzione del rischio sono esplicitamente previsti dalla stessa legge. Per chi delinque in relazione a problemi di tossicodipendenza è prevista la sospensione della pena fino SEI anni in cambio di programmi che possono essere terapeutici o riabilitativi. Peraltro, siamo anche uno dei paesi al mondo dove è costantemente crollato il numero dei decessi per overdose insieme alla prevalenza di positività per HIV sui nuovi casi. Quindi direi che le vigenti leggi, almeno ai fini sanitari, vanno benissimo. Ciò che va malissimo sono i servizi che non le conoscono e non le applicano, senza nessuna giustificazione. A cui si aggiungono le sciagurate scemenze regionali, supinamente applicate, che vanificano spesso quanto la legge impone. E’ stupefacente che, avendo questa bicicletta qualcuno si permetta di non pedalare. Poi sul caso dell’omicidio della ragazza direi che non è il caso di fare nessuna considerazione sulla base di quel che si legge suio giornali. Nè per dire che avrebbe fatto meglio a stare in comunità (dove certmente non l’avrebbero fatta a pezzi) nè per dire che avrebbe fatto meglio a non andarci o ad andarci con questa o quella terapia nè per attribuire la responsabilità di quel che è successo a persone diverse dall’autore.

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