A proposito dei modelli animali di addiction

A PROPOSITO DEI MODELLI ANIMALI DI ADDICTION
Paolo Nencini
Unitelma Sapienza, Università degli Studi di Roma

Ho letto con interesse la lettera inviata dal Presidente della Società al Viceministro della Salute riguardante l’ormai annoso tentativo di proibire la sperimentazione animale nel campo delle tossicodipendenze. Naturalmente sono pienamente d’accordo con la posizione della nostra Società, essendo convinto che i modelli sperimentali di addiction sono stati e continueranno ad essere importanti per la comprensione e il trattamento del disturbo, permettendo di cogliere quanto l’addiction dipenda dal “the animal in us”, secondo la felice espressione di un neuroscienziato francese (1). Ciò detto e sottolineata la natura pericolosamente censoria del voler proibire argomenti di ricerca in quanto tali, credo sia necessario riflettere in questa sede sui limiti che hanno le interpretazioni dell’addiction più fortemente debitrici dei modelli animali.

Il pessimismo di un recente articolo di Addiction

A tal fine viene quanto mai a proposito un articolo pubblicato sul primo numero 2020 di Addiction, dove due ricercatori inglesi si sono chiesti quanto siano utili i modelli animali per il progresso della terapia farmacologica della tossicodipendenza (2). La risposta è decisamente negativa, riconoscendo che solo l’introduzione della vareniclina nel trattamento del tabagismo è debitrice della ricerca preclinica, mentre del tutto privi di conferme nell’uomo sono stati i risultati positivi ottenuti nelle specie infraumane con la D-cicloserina e l’aripiprazolo nell’inibire l’autosomministrazione di cocaina, infine il nalmefene, antagonista oppioide, non ha fornito risultati migliori del ben meno costoso naltrexone. Altri avevano del resto già notato la mancata conferma dell’efficacia nel trattamento della dipendenza da cocaina dell’acetilcisteina, antagonista glutammatergico, e degli antagonisti del recettore 1 del Fattore rilasciante la corticotropina (3).
Gli autori scartano decisamente le motivazioni di ordine metodologico (alto effetto placebo, dosaggio insufficiente, cattiva compliance, ecc.) per mettere, per così dire, i piedi nel piatto, affermando che i ripetuti fallimenti nello sviluppo di nuove molecole deriverebbe dall’intrinseca incapacità dei modelli animali di catturare la complessa natura umana della tossicodipendenza al punto che intitolano un paragrafo dell’articolo “Findings from animal models of addiction have generated a misleading picture of the nature of addictive behaviour in humans”. Privo di riscontro nell’uomo vi sarebbe ad esempio il dato che l’autosomministrazione di una droga nei modelli sperimentali è mantenuta malgrado il comportamento sia punito ovvero sia sottoposto a procedure di svalutazione del rinforzo; una mancanza di flessibilità che ha portato a formulare l’ipotesi, ampiamente condivisa, che l’addiction equivalga ad un comportamento compulsivo. Al contrario, notano gli autori, nell’uomo l’assunzione di droga è tutt’altro che un comportamento inflessibile, essendo possibile contrastarla con la concorrente offerta di incentivi monetari o di altra natura (contingent contracting); inoltre, le complesse strategie che vengono poste in atto per procacciarsi la droga dimostrano che nel soggetto dipendente rimane intatto il controllo del comportamento finalizzato all’obiettivo (goal-directed control over behavior). Per inciso, se si vuole averne conferme autobiografiche si veda come due noti scrittori tossicodipendenti, Fallada e Burroughs, si destreggiassero abilmente nel procacciarsi la droga, rispettivamente, nella Berlino del primo dopoguerra (4), e nella New York del secondo dopoguerra (5).
L’articolo di Addiction non è peraltro un fulmine a ciel sereno in quanto alcuni autorevoli neuroscienziati avevano già sottolineato che la scoperta di farmaci utili nelle dipendenza attraverso l’uso di modelli sperimentali è più una eccezione che una regola e notavano come il modello neurobiologico che dagli inizi degli anni settanta domina il campo della tossicodipendenza, e cioè la trasmissione dopaminergica all’interno del sistema mesocorticolimbico di gratificazione, abbia completamente fallito nell’individuare molecole terapeuticamente valide. Né l’inserimento della trasmissione glutammatergica in questo sistema ha migliorato l’efficacia del modello (3). Non si può non ricordare a tal proposito una fulminante battuta di Griffith Edwards: “Have you heard tell that the seat of the addict’s soul lies in the nucleus accumbens?” (6).
In un tentativo di cogliere ciò che non funziona in questi modelli neurobiologici, si è notato come essi in ultima analisi si sono posti il compito di risolvere il dilemma se l’addiction dipenda dal “the animal in us” o dall’ “human in us” (1). La soluzione fornita è stata in favore della prima opzione ritenendo che per esposizione cronica alla droga le regioni sottocorticali comuni all’uomo e all’animale sfuggano al controllo delle strutture corticali che sono particolarmente sviluppate solo nell’uomo. Come ha tuttavia notato Serge Hamed, è necessario non attribuire la vulnerabilità alle droghe dei soggetti infraumani alla loro “natura inferiore”, ma piuttosto alla artificiosità delle situazioni sperimentali e alle condizioni in cui vivono (1). E del resto che cosa può fare un ratto in uno Skinner box se non premere una leva per ottenere un premio? O come era stato scritto parecchi anni fa: “Nothing and no-body can be particularly clever in a Skinner box. A person would probably behave in much the same way as the rat behaves, given the choices evailable.” (7). Tutto ciò non ci deve tuttavia indurre a svalutare l’importanza delle metodiche di autosomministrazione che conservano un valore predittivo fondamentale nello sviluppo di farmaci da immettere in terapia, essendo incontestabile che le sostanze che vengono autosomministrate dalle specie infraumane sono abusate dall’uomo. Per altro, era già da tempo ampiamente noto che questa predittività non si estende automaticamente all’interazione con gli antagonisti e ciò è riferibile alla peculiarità delle curve dose-risposta generate in questo modello (8).
In realtà sono in corso tentativi per adattare i modelli animali al tipo di critiche di cui abbiamo riferito e infatti l’articolo di Addiction riconosce che è possibile modellare la flessibilità del comportamento di assunzione. Ben noti sono gli studi definiti del “Rat Park” dove l’arricchimento in stimoli gratificanti dell’ambiente aumentava la scelta dell’acqua di fonte rispetto a quella addizionata con morfina (9); ma dobbiamo aggiungervi anche gli studi sistematici del compianto Bill Woolverton sull’isomorfismo tra cibo appetitoso e cocaina nella scimmia (vedi, ad es.: 10). Gli autori riconoscono inoltre che, attraverso un processo di validazione inversa (postdictive validity), tre aspetti importanti dell’addiction umana sono entrati in un modello animale costruito per la cocaina e definito dei “criteri 0/3”: 1. L’impossibilità di interrompere la ricerca della droga; 2. L’essere disposto pagare alti costi comportamentali pur di ottenere la droga; 3. Mantenere l’uso della droga malgrado le conseguenze negative che ne derivano (vedi anche: 11). Ciononostante, secondo gli autori, rimangono almeno tre criteri diagnostici impossibili da modellare nelle specie infraumane: il craving soggettivo; l’assumere droga in quantità maggiore o per un periodo più lungo di quanto voluto; desiderare di ridurre o di interrompere l’assunzione ed essere incapace di farlo. L’importanza di queste componenti dell’addiction limiterebbe pertanto la possibilità di costruire un modello di tossicodipendenza valido sia a livello comportamentale che neurobiologico.

La controversia tra il modello patologico e il modello cognitivo

A ben vedere, l’articolo da cui siamo partiti si iscrive nell’assai dibattuta controversia se l’addiction debba essere considerata o meno una malattia neurologica (brain disease). Come autorevole esempio delle posizioni nettamente a favore della base organica merita segnalare una rassegna che la celebre neuroscienziata Nora Volkow firma come primo autore; nell’articolo si forniscono le evidenze a sostegno della tesi dell’addiction come malattia neurologica: dalla desensibilizzazione dei circuiti di gratificazione con la conseguente anedonia e perdita di motivazione, al rafforzamento delle risposte condizionate e della reattività allo stress che portano all’aumento del craving, all’indebolimento delle funzioni direttive corticali con perdita del controllo e aumentata vulnerabilità alla recidiva (12). È evidente che il contributo dei modelli animali alla costruzione di questa ipotesi è stato fondamentale.
Agli argomenti fortemente riduzionisti del modello neurologico si oppongono in linea di principio coloro che non ritengono che l’intensa ricerca sulle basi biologiche dei disturbi mentali possa fornire definitive spiegazioni riduzioniste di natura psicopatologica, in ciò distanziando di molto tali disturbi dai modelli di malattia analogamente riduzionisti che tanto successo stanno godendo nella moderna medicina; questi autori propongono invece un modello basato su reti i cui nodi sono costituiti da sintomi che assumono maggiore o minore importanza deterministica a seconda della natura del disturbo (13). È evidente la derivazione di tale modello dal bagaglio teorico delle intelligenze artificiali.
Più nel merito e in diretta risposta a quanto sostenuto nell’articolo della Volkow, v’è chi respinge il modello di malattia neurologica, proponendo a sua volta un modello cognitivo secondo il quale l’addiction sarebbe il risultato di un processo d’apprendimento all’interno del quale le modificazioni neurobiologiche testimonierebbero della neuroplasticità sottesa all’apprendimento (14). In particolare colui che ha proposto questo modello si chiede se il processo neurocognitivo che porta all’addiction è patologico oppure è un apprendimento di per sé fisiologico ma dalle conseguenze dannose. L’autore propende per questa seconda possibilità e ritiene fisiologico anche il progressivo trasformarsi in automatismo del consumo di droga, nella misura in cui l’automazione del comportamento libera i processi cognitivi per altre funzioni. Naturalmente la disfunzionalità del comportamento non è negata ponendo l’attenzione sul meccanismo psicologico del delay discounting (inteso come la preferenza di una ricompensa subito disponibile seppur più piccola, rinunciando ad una ricompensa maggiore ma posticipata) che viene amplificato nel soggetto dipendente fino ad una sua completa focalizzazione sull’immediato.
Nel suo complesso il modello cognitivo costituisce un cambio di paradigma di non poco conto, in quanto predice la possibile reversibilità del processo che ha portato alla dipendenza, non attraverso un magic bullet chemioterapico, ma ricostruendo un percorso motivazionale che riconduca, tra l’altro, il delay discounting nell’ambito del fisiologico, restituendo al soggetto la libertà di fare altro, inclusi i progetti a lunga scadenza. Sul come raggiungere questo obiettivo, attraverso un rimodellamento comportamentale incentrato sul recupero del controllo sul proprio agire, si veda quanto ha scritto Hanna Pickard, psicologa di Oxford (15, 16).

Conclusioni

Tirando le somme, è evidente che i modelli animali di addiction hanno prodotto innumerevoli molecole capaci di inibire in condizioni sperimentali l’assunzione di varie sostanze d’abuso, ma ben raramente queste molecole si sono trasformate in farmaci d’impiego terapeutico. È improbabile che ciò sia dovuto a sfortuna poiché l’avanzamento delle tecnologie di sviluppo di molecole farmacologicamente attive ha accorciato enormemente i tempi di realizzazione di quanto predetto dai modelli. Siamo quindi rimasti sostanzialmente fermi ad un approccio terapeutico basato sui farmaci agonisti, particolarmente validi nel campo della dipendenza da oppiacei. Sulla efficacia di questi farmaci non deve per altro esserci alcun dubbio, essendone ulteriore conferma uno studio appena pubblicato nel quale si è misurato il tasso di overdose e di necessità di trattamenti acuti in ben 40mila dipendenti da oppiacei sottoposti a differenti trattamenti; ebbene, solo metadone e buprenorfina causavano una significativa (e marcatamente significativa) riduzione di questi episodi (17). Il problema è che appare molto difficile andare oltre questi validi presidi e ciò deve fare riflettere sulla possibilità, sottolineata dall’articolo da cui siamo partiti, che i modelli animali non colgano appieno la complessità dell’addiction, “the animal in us” discostandosi in maniera critica dal “the human in us”. In uno degli interventi di commento all’articolo pubblicato da Addiction, la Deroche-Gamonet elenca gli ulteriori sviluppi apportati ai modelli animali nello sforzo di cogliere sempre più elementi del disturbo umano e staremo a vedere se questi sviluppi aumenteranno la loro capacità di predire interventi psicofarmacologici terapeuticamente efficaci. La bravissima ricercatrice francese confronta l’addiction al diabete di tipo 2, notando che se lo stile di vita occidentale ne ha causato l’esplosione, ciò non di meno è importante conoscere le basi biologiche della resistenza all’insulina caratteristica di quella condizione patologica (18). Questo paragone sottende una concezione riduzionista derivata dal modello di addiction come malattia neurologica che ha certamente funzionato nel fornire il razionale per l’uso dei farmaci attualmente impiegati, ma che non sembra riuscire ad andare molto oltre, almeno sul piano delle proposte farmacoterapeutiche. Potrà forse il recepimento di idee provenienti da altre concezioni, come quelle fornite dal modello cognitivo o delle reti sintomatiche, aumentare la capacità predittiva dei modelli preclinici di matrice neurologica?
Di nuovo, staremo a vedere, ma proprio in questo sta il bello della scienza che dibatte modellando le ipotesi sulla base delle evidenze empiriche. Ciò che non si può proprio fare è stabilire per legge quale ipotesi scartare e a tal proposito ogni riferimento a periodi oscuri della storia è d’obbligo.

1. Ahmed S.H. “A walk on the wild side” of addiction: the history and significance of animal models. In: Routledge Handbook on Philosophy and Science of Addiction H. Pickard & S.H. Ahmed (Eds.), 2018; pp. 192-203.
2. Field M, Kersbergen I. Are animal models of addiction useful? Addiction. 2020;115: 6-12.
3. Heilig M, Epstein DH, Nader MA, Shaham Y.. Time to connect: bringing social context into addiction neuroscience. Nat Rev Neurosci. 2016; 17: 592–599.
4. Fallada H. Sulla buona sorte del morfinomane. Milano 2018.
5. Burroughs W. S. La scimmia sulla schiena. Milano 2018.
6. Edwards G. Addiction, reductionism and Aaron’s rod. Addiction. 1994; 89: 9-12.
7. Davis J.B. The myth of addiction. Harwood academic publishers 1992. p.36.
8. Johanson C-E. I modelli animali di farmacodipendenza: gli studi di autosomministrazione. In: Nencini P. (ed.) Il controllo farmacologico del comportamento. Utet, Torino 1992, pp. 39-72.
9. Alexander BK, Coambs RB, Hadaway PF. The effect of housing and gender on morphine self-administration in rats. Psychopharmacology (Berl). 1978; 58: 175-9.
10. Woolverton WL, English JA, Weed MR. Choice between cocaine and food in a discrete-trials procedure in monkeys: a unit price analysis. Psychopharmacology (Berl). 1997; 133: 269-74.
11. Deroche-Gamonet V, Piazza PV. Psychobiology of cocaine addiction: Contribution of a multi-symptomatic animal model of loss of control. Neuropharmacology. 2014 ;76 Pt B: 437-49.
12. Volkow ND, Koob GF, McLellan AT. Neurobiologic Advances from the Brain Disease Model of Addiction. N Engl J Med. 2016;374: 363-71.
13. Borsboom D., Cramer A.O.J., Kalis A. Brain disorders? Not really: Why network structures block reductionism in psychopathology research. Behav Brain Sci. 2018 Jan 24:1-54.
14. Lewis M. Brain Change in Addiction as Learning, Not Disease. N Engl J Med. 2018; 379: 1551-60.
15. Pickard H. Psychopathology and the Ability to Do Otherwise. Philos Phenomenol Res. 2015; 90:135-163.
16. Pickard H. Responsibility without Blame for Addiction. Neuroethics. 2017;10: 169-180.
17. Wakeman SE, Larochelle MR, Ameli O, et al. Comparative Effectiveness of Different Treatment Pathways for Opioid Use Disorder. JAMA Netw Open. 2020; 3: e1920622.
18. Deroche-Gamonet V. The relevance of animal models of addiction. Addiction, 2020; 115, 13–18.

3 pensieri riguardo “A proposito dei modelli animali di addiction

  1. Dissento in parte da quanto espresso dal professor Nencini.
    Se è vero che il comportamento umano è più complesso di un automatismo dell’asse mesocorticale-mesolimbico, è anche vero (per ciò che vedo in ambulatorio e che leggo) che gli esempi di fallimento dei farmaci ricavati dalla preclinica dipendono dalla definizione di fallimento.
    Se siamo in cerca di un proiettile magico che risolva la patologia sui grandi numeri, supportato da investimenti che possono avere un ritorno economico, e pertanto che sia di interesse per le agenzie regulatorie, allora non ci siamo, vero.
    Se riconosciamo invece come utili i farmaci che possono aiutare il paziente a riprendere il controllo, con effetto su sottogruppi di responder, che probabilmente non siamo ancora capaci di riconoscere, anche perché oggettivamente non vi è un investimento per fare studi di ampiezza sufficiente, allora perlomeno alcuni degli esempi citati decadono.

    Prendiamo l’acetilcisteina, che conosco meglio. Nencini si basa sul riferimento 3, che è indiretto, e che a sua volta si rifà al suo riferimento 120, lo studio in doppio cieco randomizzato di LaRowe et al.
    Lo studio conclude che nel campione completo non c’è differenza dal placebo, ma che nel sottogruppo che ha già sospeso l’uso di cocaina, e che quindi fa prevenzione della ricaduta, c’è un effetto notevole.
    E in effetti chi usa il farmaco in off-label (me compreso) lo usa così, per la prevenzione della ricaduta.

    Avrei trovato più obiettivo, quindi, articolare più precisamente, senza dare per inefficace un intervento tout court.

    Questo e altri impieghi off-label di farmaci già esistenti ci vengono proprio dalla preclinica; non saranno proiettili magici, non saranno supportati dalla potenza di fuoco di chi ha i mezzi e la determinazione concreta di dimostrare l’effetto, ma danno un aiuto in ambulatorio, in associazione con tutte le altre misure che possiamo mettere in campo.

    Aggiungo, facendo riferimento ad un’altra parte dell’articolo, che il modello del Rat Park risulta confutato dai vari bias riscontrati, e dalle ripetizioni,come discusso in http://blog.sitd.it/2018/10/30/rat-park-le-soluzioni-attraenti-semplici-sbagliate/

  2. Inserisco qui la replica del 28-2-2020 del professor Nencini, che ringrazio per la squisita disponibilità al dialogo.

    Ringrazio il Dottor De Bernardis per i suoi interessanti commenti sull’efficacia dei trattamenti farmacoterapeutici, in particolare nel caso della dipendenza da cocaina, e sulla validità dell’esperimento definito del rat park. In entrambi i casi mi corre l’obbligo di sollevare alcune obiezioni alle posizioni espresse dall’autorevole interlocutore.

    1. Comprendo perfettamente che il clinico si trovi sovente a dover fare di necessità virtù, operando con ciò che ha a disposizione. Ricorrere all’uso fuori scheda tecnica dei farmaci è parte integrante di questa strategia in qualche modo obbligata. Sappiamo bene tutti come questo sia un argomento quanto mai spinoso, la mancata inclusione in scheda tecnica essendo spesso il risultato del disinteresse dell’industria a implementare costosi studi per estendere indicazioni poco remunerative (vedi i vecchi antitumorali), oppure il frutto di strategie che lasciano il sospetto che siano dettate da ragioni di marketing (vedi la storia avastin-lucentis). Ma è altrettanto vero che vi sono casi in cui è pressoché impossibile condurre studi registrativi per la scarsa numerosità della casistica (malattie rare) o per motivi etici (soggetti in età pediatrica, ecc.). Dubito che questo sia il caso dei farmaci impiegati nel trattamento della dipendenza da cocaina, condizione che interessa un numero così elevato di soggetti da rendere facilmente fattibili gli studi di efficacia e, in caso di successo, plausibilmente remunerativa la commercializzazione. Ci si accontenta così di studi limitati con analisi statistiche post-hoc che suggeriscono qualche sottogruppo che beneficia del trattamento; ciò dovrebbe servire da ipotesi di lavoro per disegnare studi ad hoc, ma ad anni di distanza di questi studi non v’è traccia, facendo dubitare della reale consistenza e riproducibilità dell’osservazione.
    In queste condizioni fa necessariamente testo la “evidence-based medicine” che si esprime attraverso le revisioni sistematiche ed esse purtroppo continuano ad essere alquanto scettiche nelle loro conclusioni: si vedano in particolare le revisioni Cochrane riportate nell’ Area dipendenze della Biblioteca Alessandro Liberati del Servizio Sanitario del Lazio e più recentemente, Chan et al. Pharmacotherapy for Cocaine Use Disorder-a Systematic Review and Meta-analysis. J Gen Intern Med. 2019 Dec;34(12):2858-2873. Ci troviamo dunque di fronte ad una evidente stasi nello sviluppo di nuovi farmaci attivi nel trattamento dell’addiction, in stridente contrasto con quanto avviene nei più diversi campi delle malattie organiche dove appare ben lontano l’esaurirsi delle potenzialità d’offerta di nuove soluzioni farmacoterapeutiche.
    Credo che non ci si possa meravigliare che vi sia chi comincia a mettere in dubbio la capacità del modello di addiction come brain disease di fornire efficaci ipotesi di sviluppo di nuove molecole terapeuticamente efficaci. A tal proposito vorrei sottolineare che il learning model proposto in alternativa del disease model non confuta minimamente le acquisizioni fornite dalla ricerca neuropsicobiologica, ma le riorganizza all’interno di una cornice teorica differente capace di includere aspetti del consumo di stupefacenti e della storia naturale dell’addiction fino a non molto tempo fa trascurati dai modelli sperimentali.

    2. Tra questi ultimi vi sono indubbiamente quelli di ordine sociale e qui veniamo alla seconda osservazione del Dottor De Bernardis, quella che riguarda l’esperimento cosiddetto del “rat park”. Ovviamente convengo con i limiti metodologici dello studio, tali da indebolire molto i risultati osservati, ma rifiuto con fermezza che ad esso si possa applicare il contenuto dell’aforisma attribuito a George Bernard Show e questo per vari motivi. Innanzi tutto, nella misura in cui si proponeva di misurare l’influenza dell’ambiente sul comportamento d’assunzione, lo studio si è uniformato al principio cardine della farmacologia comportamentale secondo il quale non si può predire l’effetto psicocomportamentale di un farmaco se non si conosce il contesto in cui avviene la sua somministrazione. Un principio che aveva già permesso di dimostrare come addirittura il fenomeno così squisitamente farmacologico della tolleranza sia modulabile dalle contingenze ambientali (contingent tolerance). Nessuna semplificazione dunque, ma una notevole complicazione del modello sperimentale che mirava a tenere conto della interazione tra effetti farmacologici, fattori individuali e ambiente; interazione che di lì a poco sarebbe stata colta dalla formula del “drug, set and setting” utilizzata dallo psichiatra Norman Zinberg come titolo per il fortunato libro in cui ha descritto le sue osservazioni di campo sul consumo controllato di droghe (a proposito, è stata recentemente pubblicata la traduzione italiana dell’opera per i tipi delle Edizioni Gruppo Abele: a quarant’anni di distanza resta una lettura decisamente interessante). John Falk, uno psicofarmacologo di grande talento e vasta cultura, nel 1987 sarebbe andato oltre intitolando un suo saggio Environmental and cultural factors in the behavioral effects of drugs.
    Se dunque i risultati del “rat park” lasciano a desiderare, l’idea su cui si basava l’esperimento era ottima come testimoniato dal fatto che sempre maggiore attenzione si va ponendo, ad esempio, al nesso tra addiction ed esclusione sociale. Una fertilissima linea di ricerca che utilizza modelli animali in grado di formulare anche ipotesi che riguardano la circuitazione cerebrale del legame tra le due condizioni, come esposto ampiamente nella rassegna corrispondente alla referenza 3 dell’articolo.
    Citazione per citazione, mi verrebbe da parafrasarne una assai abusata, osservando che nel consumo di droghe e nell’addiction ci sono molte più cose di quante non ne contemplino i modelli riduzionisti. E questo è tutto sommato un bene poiché nuovi angoli visuali possono aprire anche nuove prospettive di trattamento della vera e propria addiction.

    Paolo Nencini

  3. Di seguito il commento di Luigi Stella, presidente nazionale SITD:

    La lettura delle riflessioni del Prof e della Sua replica, stimola alcune considerazioni, perché questo è un campo minato (vedi sul sito nostri precedenti interventi) e ho timore che l’ignoranza potrebbe speculare, non cogliendo la finezza dell’articolo. E’ lapalissiano che noi dobbiamo essere aperti a tutti i punti di vista e sono sicuro di interpretare il pensiero di tutti i ricercatori nell’affermare: chi sarebbe più felice degli stessi ricercatori nel non dover utilizzare un paradigma animale.

    Non sarei così certo della mancanza di farmaci per l’Addiction, magari per la cocaina è così. Per esempio alcuni farmaci sul disturbo di uso di alcool (DUA) ci arrivano dalle ricerche precliniche. A noi tutti sono note e ricerche sui ratti Sardinian alcohol preferring e il loro contributo per l’impiego del sodio oxibato nel DUA, e ancora per la stessa patologia, studi preclinici hanno dimostrano l’efficacia del baclofen poi utilizzato nella clinica. Invece il problema cocaina è molto complesso e l’assenza di specifici recettori localizzati e il suo stesso meccanismo d’azione complicano l’individuazione appunto di farmaci specifici. Credo che molti di noi si aspettino una sorta di pillola magica e capisco anche la nostra frustrazione, ma purtroppo è un tantino complicato. Se solo esaminiamo le molecole e i farmaci testati sia in preclinica e clinica (ovvio che per molti solo in preclinica) per la cocaina ci viene da mettere le mani nei capelli, per nessuna patologia troviamo un riscontro del genere: bromocriptina, lisuride pergolide, cabergolina, carbamazepina, fenitoina, gabapentin, buprenorfina, acido valproico, metadone, levodopa, carbidopa, amantadina, BDZ, sodio oxibato, antidepressivi, ondansetron, atomoxetina, N-acetilcisteina, metilfenidato, ibogaina, apomorfina, baclofen, memantina, reserpina, topiramato, ß-bloccanti, quetiapina, naltrexone, tiagabina, disulfiram, lamotrigina, risperidone, modafinil, ecc. Purtroppo, nessuno dei citati si è dimostrato efficace, ma anche se dette ricerche sono state fallimentari, ci hanno consentito di individuare meccanismi e osservazioni sconosciute con il risvolto di avere più chiara la patologia. Tutti i farmaci riportati sono stati utilizzati off-label e ho idea che il settore, comunque risente di un certo stigma, perché noi abbiamo un precedente clamoroso con la clonidina, sono trascorsi più di quarantadue anni da quando Gold ha descritto la sua efficace nella sindrome di astinenza da oppiacei. A qualcuno risulta che è stata sperimentata per studi autorizzativi da qualche casa farmaceutica per sottrarla alla prescrizione off-label?

    Un nostro compito essenziale è cercare di controllare la patologia e anche risultati di riduzione del 30% rappresentano un successo terapeutico, come sostenuto dall’OMS per tutte le patologie. Il solo comprendere attraverso la ricerca preclinica i meccanismi dell’Addiction non è poco, e, infatti, abbiamo ampliato le nostre conoscenze sull’Addiction, grazie alle ricerche precliniche. Voglio anche riferirmi alle ricerche che utilizzano l’optogenetica, quanti punti oscuri ora sono più chiari e dette ricerche fanno intravedere la strada per lo sviluppo di nuovi farmaci potenzialmente efficaci.

    Anche se i farmaci agonisti, nella vera pratica clinica, non consentono, la “guarigione” completa di tutti, c’è una folta letteratura da Dole e Nyswander in poi che dimostra la riduzione dell’assunzione di oppiacei, con dosaggi appropriati in modo i che pazienti possano avere un controllo della Loro TD, interrompendo o riducendo l’assunzione di sostanze, il che rientra a pieno titolo nelle “harm reduction policies”.

    In conclusione grazie agli studi italiani le conoscenze scientifiche sulla tossicodipendenza (TD) e sul suo trattamento sono notevolmente aumentate nel corso degli ultimi due decenni. Oggi, abbiamo una migliore comprensione degli effetti delle droghe sul cervello, maggiori trattamenti innovativi e più efficaci rispetto al passato.
    Altrettanto lapalissiane è che molte sono le evidenze che le dipendenze hanno una base condivisa. Ormai è sapere comune e acclarato da moltissime evidenze scientifiche che la problematica trova le sue radici nel fatto che la dipendenza da sostanze sia dovuta a diverse entità, che dipendono da vari fattori, tra le quali la genetica, la risposta individuale del paziente alla droga e i condizionamenti ambientali, cioè a dire: il comportamento di assunzione di sostanze è prodotta dall’interconnessione di tre dimensioni, biologica, ambientale e psicologica. Le ricerche di questi fattori ci hanno permesso di comprendere come le sostanze siano in grado di alterare le strutture cerebrali con compromissione della motivazione, dell’apprendimento e della gratificazione inquadrando molti disturbi e comportamenti. Inoltre, per esempio, le recenti conoscenze delle scienze neurologiche sostengono con molta forza la teoria neurobiologica unitaria che considera analogamente le dipendenze da sostanze e quelle comportamentali.

    Una visione a 360° impone che le ricerche devono essere indirizzate in più direzioni e il solo aspetto neurobiologico non è sufficiente a spiegare, comprendere e curare l’Addiction.

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