Evento formativo nazionale SITD 2018

Appropriatezza, razionalità, letteratura internazionale, quale miglior risposta al problema globale dell’addiction

Tavola rotonda “Dipendenze e Stampa: quale rapporto”

de Bernardis:
“La stampa vista dall’ambulatorio delle dipendenze”

 

 

Contributi scritti:

Bianchi:
“DROGHE, STAMPA E GIOVANI ITALIANI: TRA MANCANZA DI INFORMAZIONE, SENSAZIONALISMO E STIGMA “

Dipendenze e Stampa: costruiamo un rapporto sinergico

DROGHE, STAMPA E GIOVANI ITALIANI: TRA MANCANZA DI INFORMAZIONE, SENSAZIONALISMO E STIGMA

Il rapporto tra le droghe e la stampa italiana è, per usare un eufemismo, a dir poco complicato. E quello tra droghe, stampa e giovani lo è ancora di più.

Nonostante non sia un fenomeno nuovo, la trattazione non è cambiata più di tanto negli ultimi cinquant’anni. Anzi: dal caso del “barcone della droga” ormeggiato sul Tevere del marzo 1970 (che in realtà era una notizia falsa), lo schema si è riproposto in maniera pressoché invariata: notizia di cronaca (quasi sempre su imbeccata delle forze dell’ordine), allarme mediatico, panico morale, speculazione politica, rimozione – e così via, fino al prossimo caso.

Come VICE Italia, rivolgendoci principalmente a una fascia d’età che va dai 18 ai 35 anni, ci siamo sempre sforzati di andare oltre il racconto mediatico predominante. Proprio perché non rispecchia affatto la realtà, l’esperienza e anche la sensibilità della nostra generazione.

Negli ultimi anni, attraverso l’analisi di vari casi, abbiamo anche provato ad evidenziare le numerose storture che – è bene dirlo subito – non risparmiano proprio nessuno, comportando una specie di tabloidizzazione dell’intero sistema informativo che appiattisce la complessità e ha effetti drammatici specialmente sui più giovani.

Qui di seguito, dunque, porterò un paio di esempi.

 

LO SPOSTAMENTO DEL FOCUS: I CASI MARIOTTINI E MASTROPIETRO

Nell’ultimo anno, due casi diversi tra loro hanno parecchio colpito l’opinione pubblica italiana: le morti di Desirée Mariottini a Roma e Pamela Mastropietro a Macerata. Come noto, entrambi i casi sono stati subito risucchiati dalle polemiche politiche per il coinvolgimento di cittadini di origine straniera; e nel caso di Macerata, una copertura mediatica morbosa e sovreccitata ha spinto – come ha detto lui stesso – l’estremista di destra Luca Traini a sparare indiscriminatamente a persone nere per “vendicarsi”.

Ciò che non è mai emerso nel dibattito, ossia il grande non detto, è l’abbassamento dell’età media degli assuntori di certe sostanze – unito anche al cambiamento delle modalità di assunzione e dei prezzi. Certo: purtroppo, non è nulla di nuovo per gli esperti; e le ricerche del Cnr segnalano questo fenomeno almeno dal 2013.

Di questo, per l’appunto, non si discute mai. Quando si parla di eroina in Italia, infatti, si è fermi a trent’anni fa: si usano gli stessi schemi, e in questo modo non si riesce più a rilevare il fenomeno – se non ricorrendo a triti espedienti (come quello del “ritorno dell’eroina”, che ormai è un filone giornalistico a sé stante) o alla cronaca nera, che tuttavia porta con sé un carico emotivo tale per cui ogni discussione seria è destinata a deragliare.

Nel caso Mariottini, infatti, le soluzioni proposte sono state la solita “ruspa” e la proibizione di vendere alcool dalle 21 in poi. Di “droga”, insomma, non si deve assolutamente parlare; perché il solo parlarne avvicinerebbe i giovani alla “droga”. Ma è proprio la mancanza di informazione – unita al sempiterno stigma – a rendere più vulnerabili giovani e giovanissimi.

Il ragionamento di cui sopra – che fa una buona parte della politica e dei media italiani – ci porta ad un’altra grossa stortura che è contenuta nell’uso stesso del singolare della parola “droga”. Ed è:

 

L’OSTINATA EQUIPARAZIONE TRA “DROGA LEGGERA” E “DROGA PESANTE”, E LA RIMOZIONE DEL REALE

Uno dei lasciti più velenosi dell’“era Giovanardi” è l’aver spazzato via ogni distinzione tra le droghe. Il risultato è che – mentre, solo per fare un esempio, in Canada è appena passata la legalizzazione – in Italia si parla di cannabis come se fossimo in uno spot proibizionista degli anni ’20.

In particolare, è invalsa quella che a VICE abbiamo definito la “narrazione della buonanotte”. Un’analisi del reale, cioè, che ricalca il leitmotiv delle fiabe che ci leggevano la sera per farci addormentare: “Va tutto bene, è tutto a posto. Avere paura, e rifiutare quello che ti spaventa della vita, è cosa buona e giusta. Il piccolo mondo in cui vivi non ti crollerà attorno solo perché non lo capisci”.

Qualche tempo fa, un grosso giornale italiano ha pubblicato uno “speciale” intitolato “gli adolescenti e le canne” che racchiude tutti i sottogeneri della “narrazione della buonanotte”: l’introduzione indulgente e dal tono gravoso del giornalista benpensante e bonario; la presa di coscienza del tipo “la situazione è più grave di quello che credete, e si sta verificando sotto ai vostri occhi”; l’intervento della terapeuta che si confronta con il problema tutti i giorni e sa di cosa parla; la testimonianza di una madre che è scampata all’adolescenza delle proprie figlie; la testimonianza della donna con un passato turbolento che si identifica ma che è finita nello stesso limbo di paure una volta diventata madre; e la chiosa del j’accuse dolente, che tenta di fare autocritica.

Quello che grottescamente emerge da una simile analisi è però un altro fatto: chi si impegna nella descrizione di un problema è  molto meno informato e consapevole dei “giovani” a cui sta tentando di praticare una diagnosi. Informarsi su questioni come la legislazione sulle droghe nel nostro paese, le conseguenze del consumo di cannabis, e la diffusione delle sostanze tra i giovani è possibile solo se si affronta la questione da una prospettiva orizzontale, che sia in comunicazione diretta e non surrogata con la realtà.

Sulla stessa falsariga – e anche questa volta, dopo un tragico caso di cronaca: quello del 16enne di Lavagna che si è suicidato durante una perquisizione della finanza, e dopo un controllo fuori dalla sua scuola – sono poi comparsi editoriali insopportabilmente moraleggianti e anti-scientifici in cui (qui siamo nel 2017, è bene ricordarlo) si potevano leggere cose del genere:

Va detto ai nostri figli. La ‘canna’ non è ‘che bello, tre amici , una ragazza e uno spinello’ come diceva la canzoncina. La ‘canna’ è droga. Si chiama hashish. È la chiave che apre la porta della perdita di sé stessi e del proprio futuro. È l’inizio della dipendenza. Porta al crac, alla eroina, alla cocaina, passando per ecstasy e pillole. Drogarsi non è ganzo. Drogarsi é uccidersi la vita da sé. 

 

L’ALLARMISMO SULLO SBALLO E I “GIOVANI CHE NON HANNO PIU I VALORI DI UNA VOLTA, SIGNORA MIA”

Quello che ho appena citato non è un’argomentazione isolata della stampa italiana quando si parla di droghe. Direi, piuttosto, che ne costituisce un rumore di fondo – un rumore pronto a diventare frastuono al momento giusto.

Com’è successo nell’estate del 2015, quando era scoppiato l’ennesimo “allarme sballo” dopo alcuni casi di cronaca. All’epoca, la stampa locale e nazionale aveva deciso di mettere in un unico calderone “movida selvaggia”, “secchiello delle mille cannucce colmo di mojito”, “tampax alcolici” e “pasticche letali” di imprecisata “droga sintetica”.

Per riepilogare quella copertura, basta ripercorrere un caso. La notte del 9 agosto, una ragazza di 16 anni è stata ritrovata senza vita sul lungomare di Messina. Prima ancora che fossero accertate le cause (l’assunzione di due dosi di Mdma, almeno in base al processo) la stampa ha subito puntato in direzione del “divertimento degenerato”. Ed è riuscita a scavare parecchio in fondo: per spiegare il tutto, si è infatti deciso di puntare esclusivamente sullo stile di vita della vittima e della personalità – estrapolate da qualche foto e status su Facebook.

In un articolo, ad esempio, si sono usate descrizioni di questo genere: “il viso sfigurato da cinque piercing”; il “lobo dell’orecchio destro sfondato”; “i capelli cortissimi rasati alle tempie a darle un aspetto ancor più mascolino”. Poi si sono analizzati anche i gusti musicali (“gruppi satanisti ed emo”, senza specificare quali) e le frequentazioni (“ambienti antagonisti” e “centri sociali”) – come se in qualche modo questi fattori avessero determinato la morte.

Insomma: una sfilza di cliché volti a destare sgomento nei lettori, e addossare alla vittima le “scelte di vita sbagliate”. Nessuna discussione matura, invece, sulle droghe sintetiche (presentate invece come l’ultima “novità letale” nel panorama dello “sballo”); nessun dato su di esse; nessuna informazione sulla loro composizione; nessun aiuto, per finire, a comprendere la situazione.

Parlando del caso in un articolo su VICE, avevo ricordato una frase del giornalista Carlo Rivolta, scomparso nel 1982 a causa dell’eroina. Rivolta diceva che lo “spessore umano” di un giornale lo si misura da “come dà la cronaca, se fa a brandelli la vita della gente o se cerca di aiutarla.”

Ecco: penso che questo assunto sia ancora più stringente quando si parla di droghe.

È davvero arrivato il momento di gettare i soliti schemi vecchi di quarant’anni. Non che ci voglia molto, poi: basterebbe studiare, andare sul campo senza preconcetti, non piegare la realtà ai propri pregiudizi, fare analisi comparative, consultare gli esperti e affrontare la questione da un punto di vista sociale – uscendo dalla logica binaria ordine pubblico/moralismo che, purtroppo, contraddistingue larga parte dell’informazione italiana sul tema.

E credo che mai come ora il giornalista abbia a disposizione una serie di fonti e strumenti che gli permettono di fare un salto di qualità. Bisognerebbe avere la voglia di farlo.

 

Leonardo Bianchi
News Editor di VICE Italia

 

 

Roghi:
“La malattia del Desiderio”

La malattia del Desiderio.

Desideré Mariottini è morta la mattina del 19 ottobre nel quartiere di san Lorenzo, a Roma.

Fino a quel momento nessuno aveva mai sentito parlare di lei. La sua era una vita senza storia. Il giorno dopo la sua morte sono stati individuati i responsabili.

L’affare è diventato una questione di stato quando il ministro dell’interno ha deciso di andare a San Lorenzo sul luogo della morte. Non l’aveva fatto per nessun’altra donna uccisa, neppure prima della sua elezione. Neppure per la giovane Pamela Mastropietro.

I giornali hanno iniziato a ricostruire le cause “inevitabili” della sua morte, a tracciare il profilo di una predestinata. Nessuno, davvero nessuno, si è chiesto come fosse possibile, umanamente possibile che una ragazza di 16 anni, una ragazza come tante potesse morire così: dove erano le sue amiche, dove i suoi insegnanti. Quali parole avesse ascoltato sulla tossicodipendenza, il pericolo, la morte.

Due narrazioni si sono contrapposte: quella securitaria da un lato quella contro la violenza sulle donne dall’altro. In tutti e due casi Desirè è diventata il simbolo di qualcosa.

Lei è scomparsa, uccisa un’altra volta, negata nel suo essere corpo, vita, ragazza, figlia, amica, nipote. Da viva non ha interessato nessun giornalista, nessun ricercatore, nessun uomo politico.

«Nata come soggetto pubblico nell’istante in cui è morta». Le parole dello storico Jablonka non smettono di tormentarmi. Da storica mi sento in dovere di agire diversamente. Di spostare l’attenzione, di non trasformare nessuno in simbolo, in icona, anche se potrebbe far “comodo” alla mia causa. Perché Desiré non conta soltanto in quanto ragazza, unica, ma anche perché la scuola i servizi sociali gli amici che l’hanno incontrata costruiscono una trama di una storia che avrebbe potuto finire diversamente.

Mi dispiace non essere con voi a discuterne, ma credo che l’ecologia del discorso sulle dipendenze debba essere il primo punto all’ordine del giorno soprattutto quando si parla di giovani vite.

C’è un bellissimo documentario che si intitola La malattia del desiderio, un docuemntario del 2014 di Claudia Brignone: racconta la vita degli operatori pubblici di un’asl di Napoli. Il lavoro titanico che compiono, il lavoro eroico che consiste nel sentire sempre le stesse scuse, gli stessi discorsi da chi non ce la fa a smettere, eppure non mandarli mai a quel paese. Una dottoressa intervistata dice: questa è la malattia del desiderio.

Ecco, il desiderio che nella storia di Desiré passa attraverso il suo nome. Se non si racconta questo desiderio, non è possibile comprendere né fare niente.

Io per esempio ho scritto un libro sul rapporto di mio padre con l’eroina: lui è stato dipendente dal 1982 al 1987. Ho cercato di risalire alle radici storiche di questo desiderio. Vorrei riportarvi una testimonianza che ho raccolto. E’ un dialogo fra una donna e un uomo, i nomi sono fittizi.

Alice: «Lo immagino perché io dopo quell’esperienza lì che è stata brutta, a me non mi è piaciuta perché non potevo guidare la macchina, non potevo guidare la macchina, capito quello che ti voglio dire? Allora poi dico: ma perché tante persone poi… perché tutti quelli che l’hanno provata TUTTI m’hanno detto che la prima volta non piace a nessuno? È vera questa cosa o no?»

Zanardi: «Sì, ci sta, io per esempio le prime volte che mi facevo vomitavo sempre».

Alice: «E non ti piaceva».

Zanardi: «No perché se vomiti bene non stai».

Alice: «Eh! E nonostante questo la facevi ancora?»

Zanardi: «Si vede di sì, si vede che lo star male era una prerogativa. Ma poi metti sul piatto della bilancia lo star male e poi invece quello che senti dopo quando, passata la buriana del vomitare stai bene parecchio, parecchio. Ma poi arrivi a un punto che ti fai perché se non ti fai più stai male… Te la spiego così: tutti gli alcaloidi dell’oppio hanno una spazialità propria… cioè gli oppiacei non hanno una spazialità da praterie, hanno spazi piccoli e a questo proposito noi s’è conosciuto uno, a Teheran, che gli davano l’oppio farmaceutico. Ecco, quest’omino passava la giornata nel suo angolino col braciere e la pipa. L’angolino è il luogo dell’oppio. Solo che in Iran allora era accettato socialmente, qui l’angolino è diventato subito anche l’emarginazione, lo sbattimento, il cercare la dose, l’essere additato come tossico. Tutto quello che è successo da quel momento in poi».
Conclude Zanardi: «Quando ti fai stai in quell’angolo ma da lì potresti arrivare al K2 e ritornare… Ma alla fine non fai un cazzo però ti soddisfa perché vedi la possibilità ma poi alla fine non fai niente. Ecco, a un certo punto sono tornato a Grosseto, mi sono messo in quell’angolino, ho continuato a vedere possibilità ma, nei fatti, non ho fatto niente. Mentre intorno a me gli amici iniziavano a stare male e anche a morire».