“Per strada con i tossici” in un libro di Chris Arnad

Pubblichiamo volentieri un’altra recensione del professor Nencini, che ci sta accompagnando nella scoperta di libri interessanti e poco noti.

“Per strada con i tossici” in un libro di Chris Arnad

La quotidianità del tossicodipendente ha occupato una nicchia assai pregevole della letteratura autobiografica contemporanea a partire da Hans Fallada (“Sulla buona sorte del morfinomane” e “Der Alpdruck”) per proseguire con il fin troppo noto William Burroughs padre (“La scimmia sulla schiena”) e acquisire toni sempre più crudamente realistici in “Speed” di Burroughs figlio e in “Grand Central Winter” di Lee Stringer. Nel frattempo ad essa si è rivolta l’attenzione degli etnografi di strada che hanno applicato all’ambiente urbano le metodiche d’indagine sviluppate da Bronislaw Malinowski nello studio delle popolazioni isolate. Pur se inizialmente criticato per la sua inevitabile soggettività descrittiva, l’approccio etnografico fornisce importanti elementi di indirizzo per sviluppare politiche orientate al miglioramento delle condizioni di vita del tossicodipendente.

Nel filone etnografico può essere collocato il recente “Dignity. Seeking respect in back row America” (Sentinel, 2019, 284 pagine), un volume in parte fotografico di Chris Arnade. In realtà l’autore non è un etnografo di professione: con un dottorato in fisica teorica, Arnade aveva infatti svolto con successo il mestiere di trader a Wall Street, definendosi appartenente alla “front row”, la prima fila della società occupata da chi ce l’ha fatta, con le credenziali giuste per conquistarsi un lavoro di prestigio che gli ha permesso di vivere nel quartiere giusto con tutti i conforti del caso. Tutto ciò non gli era bastato e invece di salire ancora più su, era entrato in una crisi esistenziale che lo aveva portato a lasciare il lavoro per frequentare i posti “dove ti dicono di non andare”, a cominciare da uno degli angoli peggiori del Bronx a New York, Hunts Point. È lì che per tre anni ha passato le giornate in compagnia di una umanità dolente che il giorno vive in strada, con il McDonald come unico rifugio dove lavarsi e avere cibo a buon mercato, mentre la notte la trascorre sotto i ponti o nei palazzi abbandonati, con la speranza di racimolare abbastanza per un albergo a ore. D’altra parte, per costoro le uniche opzioni alternative alla strada sono di finire in prigione, o in riabilitazione o di essere ammazzati. Il dolore è la tonalità della loro vita, per altro talmente squallida che la morte non gli appare più così terribile e l’autore si chiede se piuttosto che un modo per smussare il dolore, la droga non serva per porvi fine una volta per tutte. V’è infatti chi si scrive in rosso sulla pancia il numero di telefono della madre o del partner per non finire in una fossa comune. Sono vite predestinate all’esclusione, come quella dell’afroamericana che aveva cominciato a prostituirsi dodicenne accompagnando la madre in strada; madre lei stessa a tredici e poi eroina e crack. L’autore la descrive come appartenente ad una “street family” di una cinquantina di uomini e donne che vaga per il quartiere, in fuga da “abuse, dysfunction, or stigma and ended up in Hunts Point for the comfort of drugs”. Niente di nuovo, in verità, perché la stessa umanità l’aveva narrata sessant’anni prima lo scrittore afroamericano Clarence Cooper Jr. nel suo terribile “The scene”, mentre negli anni ottanta era stato il sociologo Terry Williams a chiamare “family” il gruppo che stava studiando a New York e la cui esistenza ruotava attorno al “seeking, finding, consuming, and trading crack” (Crackhouse; Notes from the End of the Line, 1993). Ciò che vi è dunque di amaramente sorprendente in quanto descritto nel libro di Arnade è che nulla sia mutato negli ultimi decenni.

In realtà, se qualcosa è mutato, lo è stato in peggio come si evince dal resto del libro che è la parte più originale, riassumendo quanto l’autore ha osservato guidando per 150mila miglia in giro per l’America, soprattutto nella Rust Belt, l’America abbandonata dalla manifattura fuggita all’estero in cerca di bassi salari. Qui l’ultima fila è occupata da coloro che non avevano opportunità se non quel lavoro a bassa qualifica che è scomparso con la delocalizzazione; era un lavoro che per molti andava benissimo nella misura in cui permetteva di avere un salario sufficiente a mettere su famiglia e alla fine di godersi una pensione decente. Le interviste agli anziani forniscono sempre la stessa risposta: il lavoro non c’è più e il vuoto è stato riempito dalla droga e dalla criminalità. La crisi ha colpito intere comunità, ma ha infierito soprattutto sugli afroamericani acuendone l’esclusione razziale. La droga non è arrivata quindi a minare un tessuto sociale integro, come vuole la vulgata corrente, ma a dare un senso a vite senza prospettiva e infatti anche in queste realtà si formano comunità attorno alla droga nelle quali non importa il tuo passato, i tuoi fallimenti e il colore della tua pelle.

Il testo e le immagini ci mostrano un mondo desolato di edifici abbandonati sprangati o cadenti, lotti sommersi di erbacce e immondizie, e in questo scenario che sembra creato da Philip Dick sopravvive la stessa umanità di prostitute e giovani criminali che abbiamo già visto vagare per il Bronx, anch’essa dentro e fuori di prigione o dai centri di riabilitazione, senza una abitazione stabile e sempre in cerca di quanto necessario per le dosi quotidiane di eroina, di crack, di metamfetamina o di qualsiasi altra droga che possa essere utile per tenersi su. Ciò che colpisce particolarmente Ardane è che gli unici luoghi che accolgono questa umanità così sofferente sono di nuovo i McDonald e le chiese. Anzi, nota l’autore, sovente coloro che stazionano nei McDonald sono gli stessi che frequentano le chiese, sono persone che in entrambi i luoghi passano ore a leggere la Bibbia ed è sorprendente quanto sia comune trovare Bibbie lerce nelle crackhouse o copie del Corano negli edifici abbandonati, e racconta di una coppia che nel suo vagare si portava dietro l’immagine dell’Ultima Cena, forse l’unica cosa che possedevano. È qualcosa che spiazza l’uomo di Wall Street, ossessionato dai numeri e convinto che nella scienza vi siano tutte le risposte necessarie, e se lo spiega col fatto che, diversamente da come agiscono le istituzioni assistenziali, nelle chiese nessuno ti chiede credenziali, divenendo così l’unica fonte di speranza. In fondo è la stessa speranza che tanti anni prima raccoglieva attorno alle chiese i personaggi afroamericani di “Gridalo forte” di James Baldwin.

Il libro si conclude a Cleveland mentre Trump riceve l’investitura a competere con Ilary Clinton nelle elezioni presidenziali del 2016. Nella introduzione Arnade aveva premesso che quello non era un libro su Trump, ma alla fine non può non notare che il magnate stava parlando ad un altro segmento della popolazione della Rust Belt lasciato indietro, quello dei bianchi frustrati, umiliati e arrabbiati; e infatti parla il loro linguaggio, ruvido, volgare, diretto, esaltando l’essere bianco e ignorante, trasformando la necessità del rispetto in una richiesta di rivincita. Il suo bersaglio sono quelli della prima fila, ma soprattutto le minoranze. A questo punto l’autore si chiede che cosa si possa fare e l’unica soluzione che sa trovare è nell’alternativa, che sa frustrante in linea di principio, tra un candido “non lo so” e un insulso “Tutti noi ci dobbiamo ascoltare di più”.

L’autore non ha certo il distacco del ricercatore, mostrando in ogni sua pagina e in ogni sua fotografia, anche le più crude, una profonda partecipazione emotiva alle sofferenze di quel mondo desolato e svelando al lettore quanto tutto ciò avesse minato le sue certezze di uomo della “prima fila” e di quanto ne fossero risultate meramente consolatorie le sue posizioni politiche di “liberal” aperto all’integrazione degli esclusi. Lungi dall’essere un limite, questa mancanza di distacco accademico costituisce un indubbio merito del libro permettendo al lettore di entrare anche emotivamente nella quotidianità degli esclusi che trovano nella droga il loro rifugio.

È un libro da leggere e da guardare, non c’è dubbio.

Paolo Nencini

paolo.nencini@unitelma.it

 

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