C’era una volta il vecchio della montagna (hashish, assassini e luoghi comuni)

Questa volta il professor Nencini ci porta indietro nel XIX secolo, all’origine dell’associazione tra hashisch e assassini, mostrando come esotismo, razzismo, colera e cambiamenti nelle tecniche agricole possano cementare un luogo comune.

C’ERA UNA VOLTA IL VECCHIO DELLA MONTAGNA

I lettori di questo blog sono certamente a conoscenza della storia del Vecchio della Montagna che somministrava hashish ai suoi discepoli per indurli a perpetrare efferati assassinii, da cui appunto la parola assassino. Come a volte accade, questo luogo comune ritenuto un fatto incontestabile è stato dismesso senza tanti complimenti dagli specialisti come un fattoide, qualcosa divenuto fattuale semplicemente perché ripetutamente affermato e divulgato. Pedanterie da filologi, si dirà, e di ben scarso interesse in questa sede, se non fosse che un paio di libri appena pubblicati non solo hanno ricostruito la genesi di questa etimologia fasulla, ma ne hanno disvelato anche l’uso strumentale che se ne è fatto in contesti di politica imperialista, di tensioni etniche e di esclusione sociale.

Il primo è “Taming Cannabis. Drugs and Empire in Nineteenth France” (McGill-Queen’s University Press 2020, pagine 302), nel quale lo storico americano David A. Guba Jr. fa risalire l’etimologia in questione alla conferenza dal titolo “La dinastia degli Assassini e l’etimologia del loro nome” che il padre dell’orientalistica francese, Antoine-Isaac Silvestre de Sacy, tenne il 19 maggio 1809 presso l’Institut de France a Parigi. de Sacy, partendo dal famoso capitolo del Milione di Marco Polo dove si narra appunto la storia del Vecchio della Montagna, e da alcuni manoscritti arabi del Duecento e del Trecento, giunse alla conclusione che tra gli Ismailiti, chiamati Hachichins or Haschasch, v’erano giovani specificamente allevati per uccidere e destinati, attraverso l’uso dell’hashish, alla totale sottomissione al volere del loro capo. In tale conferenza, nota Guba, venne fornita una rappresentazione caricaturale degli Ismailiti Nizariti frutto della polemica diffamatoria dei Sunniti contro gli Sciti (a cui appartengono i Nizariti) e delle fantasie degli europei del Medioevo alimentate dalla loro ignoranza sull’Islam, il tutto scambiato da de Sacy per autentici fatti. In realtà, il termine hashishiyyin non descriveva una setta dedita al consumo di hashish, ma era stato piuttosto un insulto rivolto ai sunniti Nizariti per sottolineare come il loro consumare la droga dipendesse dal basso livello sociale e indicasse l’immoralità della loro setta, considerata nemica e profanatrice dell’Islam. La fortuna di quanto affermato da de Sacy non è tuttavia derivata esclusivamente dal prestigio accademico dello studioso, ma, secondo Guba, dal collimare con quanto ai francesi veniva narrato nel corso della espansione imperiale in Medio Oriente: dalla sfortunata incursione napoleonica in Egitto alla feroce colonizzazione dell’Algeria. Sulla base di queste narrazioni si era infatti maturato il pregiudizio che l’uso dell’hashish fosse indissolubilmente legato al temperamento e alle abitudini degli arabi: indolenti, infidi, fondamentalmente barbari. Un pregiudizio che era ancora presente, come ha evidenziato Guba, al momento della discussione in parlamento della proposta di legge per combattere la droga negli anni sessanta e settanta del secolo scorso. Del resto, dall’altra parte dell’Atlantico, il potentissimo Henry J. Anslinger, a sostegno della campagna di criminalizzazione della marijuana messicana scatenata nei primi anni del suo trentennale mandato a capo dell’antidroga americana, non ebbe remore ad affermare che la setta persiana degli assassini era nota per i suoi atti di crudeltà e che quindi molto giustamente la parola ‘assassino’ descriveva la droga. Insomma, “From its humble origins as a factoid in a conference paper given in 1809 […], Sacy’s myth of the Hachichins has been transformed citation by citation into a generally accepted set of Orientalized “facts” about hashish and the peoples and cultures of the Middle East that have been used on both sides of the Atlantic to underpin ineffective and draconian drug laws that disproportionately target ethnic minorities.”

Il libro dedica molto spazio a come la medicina francese si pose di fronte all’hashish, descrivendo le due posizioni contrapposte che si formarono al riguardo. La prima fu quella favorevole ad esplorarne le potenzialità terapeutiche, a tutt’oggi ancora ben nota per l’opera del neuropsichiatra Jacques-Joseph Moreau che nell’hashish individuava un prezioso strumento di studio e di cura delle malattie mentali. Sfortunatamente appartenevano a questo schieramento i cosiddetti “non-contagisti”, i sanitari che ritenevano che malattie come la peste e il colera non fossero causate dalla trasmissione di un microrganismo ma da non meglio identificati “miasmi” (si pensi alla nostra “mala-aria”) capaci di indurre alterazioni del sistema nervoso centrale le cui conseguenze erano le manifestazioni organiche di quelle patologie. Attraverso i suoi effetti centrali, l’hashish sarebbe stato dunque in grado di combattere tali patologie. L’epidemia di colera che colpì Parigi nell’estate del 1849 fu l’occasione per verificare questa supposta proprietà dell’hashish e i risultati furono sconfortanti, i preparati di cannabis non incidendo su una patologia che uccise il 2% della popolazione parigina con una letalità del 50%. Questo drammatico insuccesso rinvigorì la posizione di quei sanitari che vedevano nell’hashish null’altro che una sostanza dotata di pericolosi effetti sulla psiche; ne conseguì una progressiva demedicalizzazione della cannabis, anche se a lungo continuò la circolazione di preparati a base di cannabis con le più svariate indicazioni, dall’insonnia all’asma.

Il pregiudizio etnico di una specifica vulnerabilità araba ad indulgere all’uso dell’hashish è stato ulteriormente analizzato dallo storico israeliano Haggai Ram nel suo libro dedicato alle vicende della sostanza in Palestina dalla fine dell’Impero Ottomano allo Stato d’Israele attraverso il Mandato Britannico (Intoxicating Zion. A social history of hashish in Mandatory Palestine and Israel. Standford University Press 2020, pagine 255). Anche Ram si rifà al fattoide del Vecchio della Montagna come catalizzatore di questo pregiudizio e ulteriormente lo documenta attraverso le testimonianze, soprattutto mediche, che sovente assumevano le caratteristiche tipiche del razzismo eugenetico. Così, ad esempio, si era espresso lo psichiatra francese Antoine Porot nell’ambito della Sottocommissione per la cannabis della Società delle Nazioni: “il modo di vivere del tutto istintivo dell’orientale, il fatto che il suo comportamento è dettato solo dalle reazioni immediate, e la sua natura fondamentalmente impulsiva, danno immediatamente un carattere tragico e violento alle sue crisi d’intossicazione”. E nello stesso ambito il suo connazionale Jules Bouquet sosteneva che l’intossicazione da cannabis era una questione di suscettibilità razziale. Queste affermazioni così perentorie erano il frutto dello spirito del tempo e, per inciso, così infatti si esprimeva l’Enciclopedia Italiana al lemma Hashish: “Il nome della droga ha dato origine anche alla parola assassini, per l’uso della droga inebbriante [sic] fatto dai seguaci del Vecchio della Montagna […]. L’uso prolungato di questa, come quello di ogni altra droga voluttuaria, produce gravi fenomeni di intossicazione (cannabismo), e questo certamente non è l’ultima causa della decadenza fisica e morale delle popolazioni orientali.”

Secondo Ram, ben diversa era l’opinione di Russel Pasha, il capo dell’antidroga egiziana, che pur lottando strenuamente contro il traffico di cannabis, attribuiva il grande uso di hashish da parte dei fellah egiziani alle loro condizioni di vita. Il funzionario inglese infatti osservava acutamente che tale uso derivava in radice dalle mutate condizioni ecologiche: sostituendo la piena annuale del Nilo, l’irrigazione perenne delle piantagioni aveva portato alla diffusione della bilarziosi, della malaria e della anchilostomiasi con la conseguenza di una devastante diminuzione della forza fisica e sessuale della popolazione. Nella sua ignoranza, concludeva Russel, il fellah era ricorso all’hashish per sostituire quelle energie fisiche che costituivano il suo codice d’onore.

Sebbene la Palestina fosse una via di passaggio dell’hashish tra i siti di produzione nel Libano e i mercati, questi sì fiorenti, egiziani, durante il Mandato britannico la droga cominciò ad essere usata sempre più dalla popolazione adulta maschile di etnia araba. Ciò aveva provocato il fermo rifiuto degli immigrati askenaziti verso l’uso dell’hashish che si coniugava infatti con l’ostilità verso la comunità araba. Lo storico mostra che, dopo la formazione dello stato d’Israele, questa ostilità si volse anche verso i Mizrahim, gli ebrei immigrati dai paesi arabi che andavano progressivamente sostituendo i palestinesi autoctoni; gli Askenaziti vedevano infatti nell’uso di fumare hashish da parte dei Mizrahim il simbolo di quella arretratezza, devianza e innata inclinazione alla criminalità che avevano già attribuito agli arabi. Un elemento discriminativo che, secondo Ram, a partire dalla guerra del 1967 si è andato dissolvendo, inizialmente enucleando dall’interdetto la vivace comunità bohèmien, scusata o addirittura descritta in termini positivi, fino a estendersi a vasti strati della popolazione al punto che, secondo il quotidiano Ha-Aretz, l’amore per la canna accomuna attualmente le diverse etnie che vivono in Israele. Le statistiche lo confermano, con un 27% di popolazione adulta che nel 2017 ha dichiarato di avere consumato cannabis nell’ultimo anno, a fronte del 9% nel 2009.

Basandosi su una approfondita documentazione, i due libri ci mostrano come l’hashish abbia avuto a lungo la funzione di stigma identificativo dell’etnia araba nelle travagliate vicende che per un secolo e mezzo hanno scosso quello che per i francesi era il loro Oriente mediterraneo. Di questo marchio ben poco sembra essere rimasto se non forse il fattoide del Vecchio della Montagna, oscurato da una vertiginosa diffusione che, nel rendere l’hashish merce globale, ha assegnato al suo consumo significati culturali del tutto estranei all’identificazione etnica o razziale e di ciò la sua più recente storia nello stato d’Israele costituisce un esempio assai sorprendente e in fondo tutt’altro che negativo.

 

Paolo Nencini

paolo.nencini@unitelma.it

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