Eroina ed immigrazione. Prima parte: gli antefatti

PREMESSA

Mi sono interrogato a lungo su quale fosse la forma migliore per raccontare l’intreccio complicato fra eroina ed immigrazione. Un argomento complesso, anche per gli addetti ai lavori. Già difficile da affrontare in ambito tecnico-scientifico, ancora più difficile da divulgare, rendendolo comprensibile ai non addetti ai lavori. Ripercorrendo velocemente tutti i risvolti di questa complessa vicenda in termini storici, però, non posso non rilevare come la sua evoluzione si intrecci, inevitabilmente, con quella della mia storia professionale in questo settore, che inizia con il lavoro in carcere e termina con le mie dimissioni da coordinatore del progetto che avevo pensato e fortemente voluto. Pertanto, il modo migliore di spiegarla, forse, è quello di ripercorrerla cronologicamente, in forma narrativa. Ho impiegato molti anni a sviluppare una consapevolezza ed ho dovuto farlo sulla base di ciò che man mano appariva ai miei occhi dall’esterno, che si è fatto conoscere pian piano e che ancora oggi non conosco ancora completamente. Per questo ho deciso di raccontare soprattutto ciò che hanno visto i miei occhi ed i problemi con cui mi sono dovuto misurare. Ognuno trarrà le sue conclusioni, secondo la sua visione e le sue convinzioni. E’ per questi motivi (e non per narcisismo) che ho scelto la forma narrativa. Una forma forse anche meno noiosa, con cui cercherò di raccontarvi come ha preso forma la mia consapevolezza, ma anche quanto questo problema sia stato lasciato libero di crescere, di complicarsi ed incancrenirsi. Da parte di tutti.

Nessuno (compreso me stesso) si senta escluso.

 

Carcere e droga

 

1990: L’INIZIO DEL LAVORO IN CARCERE

Ho iniziato a lavorare in carcere nel 1990, avevo poco più di 30 anni. Ero stato assunto come medico del Servizio Integrativo di Assistenza Sanitaria (SIAS). Un servizio che non esiste più, da quando le competenze dell’assistenza sanitaria in carcere sono passate al servizio sanitario regionale. In pratica medico di guardia di un servizio sulle 24 ore. Un contratto libero-professionale con l’allora Ministero di Grazia e Giustizia, per le cure mediche urgenti ai detenuti. Fra i compiti dei medici di guardia vi era quello dei ‘nuovi giunti’. Si trattava di visitare le persone appena tradotte in carcere, verificare il loro stato di salute, instaurare un trattamento farmacologico (casomai ve ne fosse bisogno) e richiedere gli esami di laboratorio eventualmente necessari (compresi quelli tossicologici). All’epoca, i detenuti appena entrati in carcere restavano nel reparto ‘Nuovi Giunti’ e poi andavano in sezione, dopo aver effettuato anche il colloquio con lo psicologo, per la valutazione del rischio suicidario. La custodia teneva molto al servizio nuovi giunti, per motivi legali. Richiedeva che la presenza di qualsiasi segno visibile di trauma fosse certificato da un medico esterno al carcere, per cui non accettavamo  persone con ferite, escoriazioni, ecchimosi o segni fisici di qualsiasi tipo, se non preventivamente refertati dal Pronto Soccorso. In ogni caso, doveva essere chiaro che quelle lesioni erano pre-esistenti all’ingresso in carcere, anche se apparentemente banali. Anche per questo i ‘nuovi giunti’ venivano visitati.

Il 1990 non è un anno qualsiasi, ma quello in cui venne approvata la Legge 309 sugli stupefacenti, quella ancora oggi in vigore. Non c’era stato ancora il referendum abrogativo del 1993 e quindi vigeva il concetto di dose media giornaliera: per essere accusato di spaccio erano sufficienti 150mg (se ricordo bene) di principio attivo di eroina. Più o meno quello che oggi si può trovare in una ‘pallina’ da 30 euro di ‘gialla’ dei nigeriani, se si è fortunati (o sfortunati, dipende dai punti di vista). Per dirla in breve, ho iniziato a lavorare in carcere quando questo ha iniziato a diventare un contenitore di tossicodipendenti, negli anni del boom dell’eroina e dell’AIDS. I servizi sanitari interni non erano stati pensati per reggere un impatto così impegnativo ed i SerT erano stati appena istituiti e si stavano ancora organizzando. Ai medici del carcere toccava il compito, ai limiti dell’impossibile, di assicurare l’assistenza sanitaria a tossicodipendenti gravi e malati, in gran parte privi di cure fino a quel momento. Ne entravano da cinque a venti al giorno, almeno il 60% di loro positivi per HIV.

Trainspotting astinenza

Dato il quadro prima esposto, era inevitabile che uno dei principali compiti del medico del SIAS fosse la terapia dell’astinenza da eroina. Non arrivavano subito in carcere, spesso passavano prima dalla Questura o dalla stazione dei carabinieri, per il fermo e l’espletamento delle formalità. Ne derivava che frequentemente erano già in piena astinenza quando venivano visitati. Erano in genere magri, defedati, dall’aspetto trascurato e con una brutta astinenza. La terapia era solo sintomatica ed in gran parte inefficace: clonidina (o catapresan, difficilissima da gestire in un carcere e che portava un sollievo relativo solo per alcuni sintomi), antidiarroici (che favorivano il vomito indotto dall’astinenza), antiemetici (che peggioravano la diarrea), benzodiazepine per l’ansia (poco più che camomilla e solo per muscolo), miorilassanti ed antidolorifici non oppioidi. Un cocktail esagerato di farmaci sintomatici, non privi di effetti collaterali, che dava un sollievo di poco superiore a quello dell’acqua fresca. Senza considerare che la terapia per bocca, il più delle volte, non veniva neanche assorbita, ma immancabilmente vomitata e non potevamo certo tenere decine di persone ricoverate in infermeria in terapia infusionale. Non ho più visto astinenze così brutali come quelle del carcere in quegli anni. Scene terribili e difficili da cancellare, che vedevano protagoniste persone ridotte pelle ed ossa e devastate dall’HIV. Persone che tentavano di alzarsi dal letto, per poi afflosciarsi come sacchi di patate sul pavimento, sporco per il vomito e la diarrea incontenibili, di quelle che non ti lasciano modo di arrivare al bagno. Sette giorni di inferno, passati i quali non era finita. Perché non è vero che l’astinenza dura solo sei-sette giorni. Chiunque imprudentemente lo affermi, non ha sufficiente pratica clinica. Trascorsa l’astinenza grave e conclamata, c’è quella protratta: i disturbi del sonno, la facile irritabilità, l’eiaculazione precoce e le polluzioni notturne negli uomini, la depressione, l’incapacità a reggere le frustrazioni e l’attesa, l’ipersensibilità al dolore ed una miriade di altri sintomi che, associati al craving (sempre presente), provocano facilmente la ricaduta. Tutto ciò può durare anche sei mesi e seppure non sia drammatico come l’astinenza grave e conclamata, è molto logorante. Quando basta una pera per risolvere tutto in un attimo. Così molti venivano scarcerati dopo poche settimane, giusto il tempo per perdere la tolleranza, l’unica loro protezione e correre ‘a farsi’. In questo modo in tanti sono morti di overdose e non li abbiamo più visti. Gli altri rientravano, a volte dopo pochi giorni, al massimo dopo qualche mese ed ogni volta che uscivano puliti, il rischio aumentava. A dimostrazione, casomai ve ne fosse ancora bisogno, che non basta disintossicarsi (perdere la tolleranza) per risolvere i propri problemi con l’eroina, ma che questo approccio può anche essere letale. Specie se ci si disintossica e si fallisce più volte.

Autolesionismo

Le astinenze erano spesso associate ad atti di autolesionismo, più spesso tagli superficiali sulle braccia, a volte sull’addome e sul tronco, bisognosi solo di disinfezione, ma anche ferite da suturare. Ho suturato fino a dieci persone in un giorno. Erano gesti soprattutto dimostrativi, ma non solo. L’autolesionismo in carcere è un fenomeno complesso, ancor più complesso negli immigrati e per questo ci torneremo. In genere i tagli non interessavano le strutture vascolari e bastavano pochi punti o non ve ne era proprio bisogno. In qualche caso, però, erano brutte ferite, che si potevano solo tamponare, in attesa di trasferimento immediato in ospedale. In persone quasi sempre infette. In qualche caso finivano male, come nell’autoamputazione del pene da parte di una transessuale eroinomane, seguita da emorragia incontenibile o come nell’ingestione di centinaia di corpi estranei metallici (viti, chiodi, molle, lamette, bulloni e tutto quanto si può ricavare smontando la branda di un letto), seguita da decesso in ospedale, per rottura dell’intestino in più punti. E poi i suicidi. Non molti, ma tutti con una carica di determinazione che lasciava attoniti e soprattutto tutti a ciel sereno, senza alcun segno premonitore. Da quelli per impiccagione da seduti, con l’asciugamano legato al termosifone a quelli per soffocamento, con un sacchetto di plastica in testa. Ci vuole proprio una gran voglia di morire per continuare.

Suicidio in carcere

I reati per cui venivano arrestati erano sempre quelli: spaccio (a volte vero, per procurarsi la roba per farsi, a volte perchè quanto possedevano superava la dose media giornaliera), furto, rapina, rapina impropria (prima era scippo), evasione dagli arresti domiciliari. Solo in un paio di casi eccezionali, per omicidio ed occultamento di cadavere. Anche il profilo prevalente degli arrestati era quasi sempre quello: maschio, trentenne, disoccupato, basso livello di istruzione, per lo più proveniente da quartieri popolari, nato a Bologna, in famiglie spesso immigrate dal sud. Il quartiere Pilastro e la Barca la facevano da padroni.

Questo lo scenario nel carcere di Bologna nei primi mesi dell’applicazione della legge 309/90. L’unico modo di far fronte a questa situazione difficile (per non dire estrema) era una medicina essenziale, pragmatica. Una medicina molto simile alla medicina di guerra. Per due ragioni: perché le condizioni erano particolari ed estreme e perché bisognava prestare assistenza a tutti ed erano sempre di più. Senza dimenticare che il carcere, paradossalmente, è stato anche per moltissimi l’unico luogo in cui hanno ricevuto un minimo di cure, di attenzione e di assistenza oppure, molto più semplicemente, hanno potuto alimentarsi in modo adeguato e regolarmente. Fuori da quelle mura, per la maggioranza, tutto era ancora più difficile.

E’ in questo scenario, storicamente datato e tipicamente italiano (e bolognese in particolare), che sono comparsi in carcere i primi eroinomani immigrati. Era il 1991.

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