Eroina ed immigrazione. Terza parte: il carcere scoppia

Detenuti

 

1992 – 1994: IL CARCERE SCOPPIA

Il numero di maghrebini in astinenza da eroina che visitavo ogni giorno al reparto Nuovi Giunti aumentò molto rapidamente e la popolazione detenuta straniera in carcere levitò di conseguenza. Anche perché, a differenza degli eroinomani italiani, quelli stranieri venivano scarcerati più difficilmente ed il loro turn-over era di conseguenza inferiore. Molto più difficile, ad esempio, che ad uno eroinomane irregolare venissero concessi gli arresti domiciliari nella casa semidiroccata dove viveva. Gli eroinomani italiani detenuti invece iniziavano ad uscire, anche per effetto della nuova legislazione, che prevedeva le misure alternative alla detenzione. Il programma terapeutico in cambio del carcere. Gli stranieri no, nessuno di loro se ne giovava. Gli eroinomani immigrati non erano in carico ad alcun servizio di cura e neppure venivano presi in carico dopo che entravano in carcere. Per tutti, tranne che per i medici del carcere, erano soltanto degli spacciatori e pertanto restavano più facilmente reclusi. Anche per questo in carcere ci sono molti detenuti stranieri.

Al reparto Nuovi Giunti intanto il numero di stranieri continuava a crescere e, come era logico attendersi, la situazione degenerò velocemente. Quando arrivavano a gruppi numerosi voleva dire che c’era stata una retata. Il primo segno del fatto che tutto si stava complicando fu la comparsa dei primi immigrati che utilizzavano la siringa. La quota dei maghrebini che si bucava aumentò assieme agli arresti, stabilizzandosi in seguito attorno al 30% e non è mai più cresciuta negli anni successivi, né dentro il carcere né fuori. La maggior parte degli eroinomani magrebini, infatti, ha continuato (e continua tuttora) a fumare eroina con il metodo della stagnola. Le visite mediche alla ricerca di esiti visibili di traumi diventarono più accurate: queste persone presentavano più frequentemente lividi ed escoriazioni. Non era dato sapere come se le erano procurate e non interessava. Nella logica del carcere non era un dettaglio decisivo. Ciò che contava era che fosse stato certificato da un medico esterno, che fosse documentato che erano presenti già prima dell’ingresso. I detenuti con segni di traumi e privi di referto medico venivano respinti e la volante della polizia che li aveva tradotti in carcere li portava al Pronto Soccorso, per il referto medico. Solo dopo venivano accettati.

Chasing

Man mano che queste persone facevano il loro ingresso in carcere si aggiungevano nuovi elementi di conoscenza, frutto comunque sempre di un’osservazione superficiale: la medicina pragmatica del carcere creava occasioni di contatto assai brevi. Era sempre più chiaro, ad esempio, che dietro queste persone, apparentemente tutte uguali, c’erano storie molto diverse. Lo capivi dalle risposte alle domande sul livello di istruzione, ad esempio: c’erano persone semi-analfabeti ma anche moltissimi laureati e qualcuno di loro aveva anche lavorato come professionista al suo paese, prima di emigrare. Lo capivi anche dal loro comportamento durante la visita: in alcuni casi tipicamente levantino ed irritante. Come quando uno di loro si inginocchiò per baciarmi le mani, supplicandomi di parlare subito con il giudice, perché io ero una persona importante e mi avrebbe certamente dato ascolto. C’erano però anche quelli che mantenevano un atteggiamento dignitoso durante tutta la visita e che altrettanto dignitosamente tornavano in cella, cercando di mantenere un contegno malgrado l’aspetto miserabile. Persone apparentemente uguali, ma in realtà molto diverse tra loro. Tutti, però, spacciatori di eroina.

L’arrivo degli eroinomani immigrati fu un ulteriore elemento di complicazione della situazione (che era già esplosiva), anche nelle sezioni. Iniziarono le rivendicazioni dei detenuti stranieri sulla presenza di carne di maiale nel vitto e quelle durante il periodo del Ramadan, quando l’ora dei pasti diventava incompatibile con la sua celebrazione. Sarebbe stato possibile cucinarsi autonomamente in carcere ed adattare l’orario dei pasti al digiuno religioso, ma per farlo occorreva poter fare la spesa all’interno e per far ciò, a sua volta, era necessario avere un gruzzolo depositato sul conto personale. Al momento dell’arresto, il denaro in possesso di queste persone veniva immancabilmente sequestrato dalla polizia, in quanto ritenuto provento dell’attività di spaccio, per cui nessuno di loro aveva un conto. Potevano mangiare solo ciò che passava il convento. Una volta mi capitò di leggere un verbale di arresto, nel quale erano state sequestrate “quattromila lire (e pochi spiccioli) verosimile provento dell’attività di spaccio”. Anche agli spacciatori italiani venivano sequestrati i soldi, quando venivano arrestati. La differenza stava nel fatto che poi qualcuno, dall’esterno, depositava qualcosa sul loro conto. Per gli stranieri questo non avveniva, non c’era nessuno che poteva inviargli del denaro. La stessa cosa poteva avvenire per gli indumenti, lo spazzolino, il dentifricio. In queste condizioni fu semplice, per molti, diventare gli ultimi fra i paria del carcere.

Stranieri in carcere

Aumentarono anche le risse, che avvenivano a volte fra gruppi etnici, fra bande rivali ed anche fra stranieri ed italiani. Gli eroinomani italiani non sopportavano i detenuti stranieri, perché ‘erano venuti in Italia a spacciare’ e fu inevitabile la decisione di concentrare gli stranieri in sezioni apposite, per motivi di sicurezza. Nelle celle miste, infatti, la convivenza era difficile e le colluttazioni frequenti. Non si volevano fare però sezioni speciali, così iniziarono a collocare queste persone preferibilmente in una parte del carcere. Queste sezioni diventarono rapidamente dei ghetti rumorosi e maleodoranti, che generavano vivaci proteste da parte dei pochi italiani presenti. Soprattutto, però, aumentarono gli episodi di autolesionismo e gli scioperi della fame. Gli stranieri tolleravano meno la carcerazione degli italiani, le condizioni per loro erano oggettivamente più difficili e pertanto il loro disagio emergeva più frequentemente. Non è mai stato veramente chiaro perché molti ‘si taglino’ in carcere, ma i segni degli autolesionismi sono presenti  sulle braccia di moltissimi che ci sono passati. Gli autolesionismi sono certamente espressione di una sofferenza e di un momento di grande disagio individuale, ma ci sono anche degli episodi che li scatenano. A volte sono giochi perversi con la custodia: il detenuto ha un bisogno e chiama l’agente, ma questi lo ignora, non risponde. Il detenuto si taglia, costringendo così l’agente a dargli attenzione ed obbligandolo ad aprire la cella e ad accompagnarlo in infermeria. Questa dinamica, tanto banale quanto perversa, spiega però solo una piccola parte di tutti gli atti di autolesionismo. Una volta un detenuto straniero mi disse “Tagliarsi è utile, il sangue che scorre porta via la rabbia ed il dolore”. Ci sono tante spiegazioni per gli autolesionismi, tutte plausibili e tutte un po’ vere, ma non vale la pena addentrarcisi. Ciò che è importante ritenere è che i maghrebini si tagliavano ancor più degli italiani e che nessuno dei due si tagliava all’esterno del carcere.

Autolesionismo

Un’altra attività dei medici penitenziari era la valutazione clinica dei detenuti che dichiaravano di effettuare lo sciopero della fame. Erano centinaia ogni anno, impossibile prenderli tutti sul serio e comunque non era il caso, visto che la maggior parte erano semplici dichiarazioni di persone che digiunavano di giorno e mangiavano di notte. Qualcuna, però, era vera. Lo screening veniva fatto in modo veloce e pragmatico, quello tipico della medicina penitenziaria: se è vero che non stai mangiando devi dimagrire, è lapalissiano. Pertanto ogni giorno gli ‘scioperanti della fame’ venivano convocati in ambulatorio e pesati ed il peso annotato su di un registro apposito. La stragrande maggioranza non perdeva un etto per settimane, qualcuno addirittura ingrassava. Pochi cominciavano a dimagrire veramente ed il metodo per identificarli era assai semplice ed infallibile. Il motivo dello sciopero della fame era sempre quello, la richiesta di parlare con il giudice, per rivalutare la propria posizione giudiziaria. Richiesta che veniva inoltrata al magistrato dalla custodia, il quale ovviamente non si presentava: considerato il numero di scioperanti avrebbe dovuto passare più tempo in carcere che in tribunale. In questo modo lo sciopero della fame diventava quasi sempre una pantomima burocratica. Ricordo pochissimi casi in cui le persone hanno continuato a non mangiare, meno dell’uno per cento. Quanso qualcuno iniziava a perdere due o tre etti al giorno era credibile e voleva dire che non si stava più alimentando sul serio. Uno sciopero della fame vero e determinato era motivo di preoccupazione per un medico penitenziario. La legislazione italiana a riguardo è ambivalente e la giurisprudenza altrettanto contraddittoria. Vi sono stati medici penitenziari condannati per aver rispettato la scelta del detenuto e non aver alimentato forzatamente la persona, rispettando il dettato costituzionale e medici condannati per averlo fatto, violando così i suoi diritti. Il bollettino dell’associazione dei medici penitenziari dava sempre grande rilievo a questi casi. Anche i maghrebini cominciarono a scioperare e qualcuno lo fece in modo assai determinato come uno, che si dichiarava di nazionalità siriana (ma che aveva le sembianze di un nordafricano), che si cucì le labbra con il filo elettrico di rame, per dimostrare la sua determinazione. Un comportamento eccezionale, ma che ogni tanto si ripete fra gli scioperanti della fame.

Labbra cucite

Intanto la legge 309 funzionava sempre di più e gli eroinomani italiani continuavano ad uscire, giovandosi delle misure alternative, avviati a percorsi di cura e reinserimento. I maghrebini no, erano soltanto spacciatori e quindi subivano solo il meccanismo penale. Inoltre gli eroinomani italiani che venivano arrestati erano sempre più spesso in trattamento farmacologico e pertanto si risparmiavano le pene dell’astinenza: il carcere, infatti, iniziò a garantire la continuità del trattamento delle persone che assumevano la terapia all’esterno, anche se all’inizio solo ‘a scalare’. Comunque sempre meglio dell’astinenza a secco. I maghrebini che sempre più spesso venivano arrestati, invece, non erano mai in trattamento farmacologico e continuavano a farsi l’astinenza. Così, mentre le condizioni per gli eroinomani italiani detenuti iniziavano a migliorare, il carcere restava un inferno per quelli maghrebini ai quali, soprattutto, continuava a non essere offerta alcuna opportunità terapeutica. Ancora una volta, erano solo degli spacciatori.

In questo modo, anche come effetto di una risposta esclusivamente repressiva e securitaria, il fenomeno eroina fra gli immigrati ha cominciato ad incancrenirsi ed a cronicizzare e quando, nel 1994, ho lasciato il carcere per iniziare a lavorare al SerT, almeno 1/3 dei detenuti eroinomani erano ormai stranieri.

Gli stranieri erano diventati un serio problema per il carcere, che diventava sempre più un contenitore di gente disperata e malata, più che di criminali.

Intanto all’esterno la gente chiedeva pene più severe e più lunghe per gli spacciatori. In carcere invece la cosa appariva così.

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